Non solo competenze:
l’istruzione serve anche a trasmettere
un patrimonio culturale

Paolo Ferratini, il Sussidiario 20.4.2010

Caro Vittorio,
il tuo intervento affronta non poche questioni di rilievo, richiamando giustamente all’attenzione un tema centrale della scuola di oggi, ovvero la parte che in essa, o attorno ad essa, già hanno - e quella che dovrebbero avere - le tecnologie dell’informazione.

Ma ha soprattutto il merito, mi sembra, di non sfuggire alla domanda di fondo sulla funzione della scuola nella società contemporanea: considerato il mutare del suo peso relativo nei processi formativi delle nuove generazioni, quale ruolo essa può giocare - e a quali condizioni - sia come fattore chiave della crescita e dello sviluppo (civile, culturale, economico), sia come leva della mobilità sociale e della promozione di una maggiore equità? Solo muovendo di qui ha senso misurare le idee e confrontare i giudizi sull’efficacia e congruenza delle proposte, a partire da quelle legislative attualmente oggetto di discussione (Regolamenti e Indicazioni).

Sono assolutamente d’accordo con te sul tema (la dico alla grossa) della valorizzazione della cultura, all’interno della scuola, nelle sue manifestazioni e realtà molteplici, il che implica l’infondatezza di ogni pretesa che assuma l’una come strada privilegiata rispetto alle altre, nella formazione delle classi dirigenti.

Vi sono tuttavia alcune affermazioni, e non di poco conto, che non finiscono di convincermi. Il fatto che la scuola debba adattarsi alla società mi pare, da un lato, un truismo, dall’altro una questione tutt’altro che ovvia. Un truismo, se intendiamo che, come ogni istituzione inserita nel tempo storico, ne riflette inevitabilmente i mutamenti. Diventa meno ovvia la cosa se entriamo nel concreto non di una descrizione, ma di una prescrizione: la scuola deve adattarsi alla società. Cioè?
Prendo per buona - non per comodità dialettica, ma perché la condivido davvero - la centralità delle ICT nel processo di “adattamento”. Sono d’accordo con te sul fatto che ciò comporti:

1) la creazione di diversi «ambienti di apprendimento» (penso anche alle strutture fisiche);

2) un ripensamento della didattica, capace di incorporare i nuovi media non solo come strumenti «più potenti» e versatili, ma come oggetti che incidono profondamente sulle modalità (tempi, luoghi, strategie) dell’apprendimento stesso. Questo, tradotto in politiche, che cosa significa?

Non parole, dichiarazioni, «contestualizzazioni», ma investimenti. In conto capitale, per quanto riguarda gli edifici, a partire dalla indecorosa situazione dell’edilizia scolastica sino alle infrastrutturazioni di rete e le dotazioni di software; sulla parte corrente, in vista di un piano vero di riqualificazione della docenza.

Dunque, scelte politiche di respiro, pensate per il medio termine, oggi lontanissime dall’agenda politica sia del governo, sia dell’opposizione. Chiedere, come tu fai, a questa riforma - regolamenti e indicazioni - di farsi carico di una prospettiva simile è a mio parere improprio: sarebbe come pretendere da una pur necessaria riforma delle regole del mercato finanziario di risolvere i problemi di fondo dell’economia globale.

La riforma in via di attuazione va invece considerata - e criticata - per quello che è: la ridefinizione della cornice di ordinamento e, insieme, degli obiettivi di apprendimento della scuola secondaria. Concentriamoci su questo secondo aspetto, lo sguardo puntato sui licei. Con un’avvertenza di fondo: diversamente dal passato, è indispensabile leggere le indicazioni - ma questo varrà anche per i tecnici e i professionali - non come norme immutabili scritte sul marmo, ma, al contrario, come, per l’appunto, “indicazioni” di rotta, suscettibili di revisioni e aggiustamenti nel tempo.

Dico di più: di per sé, le indicazioni dettano sì la via per giungere al traguardo, ma si guardano bene dall’entrare nel merito dell’equipaggiamento necessario per percorrerla. E bene fanno. Non credo sia loro compito dettare «il rinnovamento dei processi di apprendimento». Quello deve maturare altrove, nella prassi e nella ricerca didattica. L’alternativa è la pedagogia di Stato, che certo né io né tu vogliamo.

Vengo ai punti su cui - pur non disperando che alla fine si possa convergere -, nella formulazione con cui li proponi, attualmente dissento. Non mi convince la opposizione fra coloro che ritengono «vi sia un “magazzino ben fornito di notizie” al quale i dispensatori del sapere si riforniscono» e coloro che ritengono «che il sapere si costruisce nel percorso di insegnamento/apprendimento».

Non mi convince perché mi sembra una semplificazione manichea e un cedimento alla caricatura delle posizioni altrui, da cui peraltro ti sei tenuto meritoriamente lontano nel resto del tuo articolo; ma soprattutto perché si fonda su un presupposto, a mio parere, sbagliato: l’idea che nel percorso educativo il quid, il quantum, il quale e il quomodo siano variabili indipendenti. Anzi, peggio: che, in una certa misura, si debba scegliere fra due modelli, il primo che privilegia quid e quantum, il secondo il quale e il quomodo.

Quando contrapponi «dare più istruzione» e «dare l’istruzione giusta», non si sfugge all’impressione che consideri le due cose come necessariamente incompatibili. E’ un po’ la pseudoalternativa moriniana fra teste piene e teste ben fatte - falsa, perché se la accetto come vera sarei costretto ad ammettere la possibilità che esistano teste vuote ben fatte (dunque, logicamente, non è un’alternativa).

Così come sono assolutamente in disaccordo su un’altra alternativa che tu proponi (questa volta plausibile logicamente, ma “terribile”, se davvero fosse fondata nei fatti come tu ritieni): quella secondo la quale «la scuola è sempre meno il luogo dove si apprende e sempre più il luogo capace di dare significato a quanto si è appreso altrove».

Non mi è chiaro se descrivi, in questo caso, o prevedi («la scuola è destinata a diventare…»). In tutti i casi, non è ciò di cui faccio esperienza ogni giorno entrando in classe. Detta così, mi sembra un’affermazione azzardata. Provo a riformularla, in una versione che non vuole essere banalmente conciliatoria, ma che mi sembra più aderente sia all’essere (almeno nelle situazioni migliori, e ce ne sono), sia al dover essere, come io l’intendo: «la scuola è (deve essere) il luogo dove si apprende ciò che non si apprende altrove e dove si dà significato a ciò che si apprende altrove».

Questo sì che mi sembra «complesso, difficile e impegnativo»: tenere insieme le due cose. La prospettiva di una scuola nella quale si adempie solo al secondo compito invece non solo non mi pare «esaltante», mi pare apocalittica.

Ora, la mossa argomentativa che ti propongo è un po’ diversa e include anche una possibile interpretazione, che spero feconda, di un’altra falsa alternativa (falsa come un soldo bucato: e infatti tu ti guardi bene, correttamente, dal farla tua) - quella fra “scuola delle conoscenze” e “scuola delle competenze”. La incorporo tuttavia nel discorso, perché dietro gli anatemi reciproci degli ultras dell’una e dell’altra parte c’è un problema vero, che è bene mettere a fuoco.


Proviamo a partire da domande semplici e impregiudicate, anche sotto il profilo lessicale: 1. “che cosa è bene cercare di insegnare”; 2. “che cosa è bene che i ragazzi apprendano”; 3. “come si coniugano 1. e 2.”. Questo mi sembra il quadro reale dei fattori in gioco. Il dato interessante, che rischia di perdersi nella formula bivoca dell’ “insegnamento-apprendimento”, è che non vi è corrispondenza fra i contenuti dell’insegnamento e i risultati dell’apprendimento.

Questi sono molto di meno e molto di più (e di altro) rispetto a quelli. Se infatti la relazione educativa è vitale ed efficace, lo studente, alla fine di un percorso dato, padroneggerà sicuramente una mole di conoscenze inferiore a quella con la quale è venuto a contatto durante il processo, ma avrà maturato, grazie ad esso, un affinamento delle proprie capacità, intellettuali e operative, che va di certo oltre gli ambiti disciplinari nei quali è stato impegnato.

Sotto questo profilo, il concetto di competenza, intesa come esito eterogenetico di un processo acquisitivo di conoscenze via via più fini, (che mette in gioco, com’è ovvio, capacità, propensioni, comportamenti soggettivi e situazioni non esclusivamente cognitive), supera la mera evidenza delle “abilità” (che altro non sono se non procedure applicative standard di risoluzione di problemi) e ha che fare piuttosto con la Bildung complessiva della persona, in perenne mutamento - per effetto di esperienze, cognitive e non, di acculturamento formale e non – lungo tutta la sua esistenza e il cui grado di adeguatezza alla realtà, professionale e di studio, si rivelerà soltanto a contatto con quella realtà e mai, interamente, prima.

In sintesi estrema: io credo che le competenze, forse più intese nel loro insieme che non analiticamente declinate, vadano perseguite e osservate (ho qualche dubbio invece sul fatto che possano essere valutate, o, peggio ancora, misurate, anche se una qualche “convenzione metrica”, in vista della comparabilità degli esiti al termine dei percorsi, sarà comunque opportuno trovarla).

Credo anche che esse costituiscano uno dei due traguardi dell’istruzione: l’altro è la trasmissione - ebbene sì, la trasmissione, nel senso alto di traditio - del patrimonio culturale alle nuove generazioni. Si può naturalmente dissentire, a patto però di essere conseguenti fino in fondo. Ciò significa assumersi la responsabilità di dichiarare i contenuti dell’apprendimento come sostanzialmente “indifferenti”, purché siano funzionali alla maturazione delle “competenze” che riteniamo indispensabili. Se non si è disposti a questo passo, onestà intellettuale vuole che si riconosca non solo la legittimità, ma il dovere, da parte del legislatore, di indicare quali “contenuti” il paese considera irrinunciabili, nel compito (non esclusivo, ma essenziale) di traditio che esso affida alla scuola.