Il poco spazio riservato alle tecnologie
è la spia che qualcosa non va...

Vittorio Campione, il Sussidiario 16.4.2010

Gli interventi che, specie negli ultimi giorni, si sono susseguiti a proposito delle Indicazioni nazionali per i Licei hanno opportunamente abbassato il tasso di acidità del dibattito e questo consente forse di trovar posto anche per un contributo, come questo, che sceglie di affrontare la discussione a partire da un approccio apparentemente eccentrico: l’organizzazione del lavoro scolastico e il ruolo delle ICT nel processo di apprendimento.

E’ difficile sfuggire all’impressione che, fra quelli indicati all’inizio del profilo dei Licei, l’ultimo dei punti (“l‘uso degli strumenti multimediali a supporto dello studio e della ricerca”) elencati dalla Commissione che ha varato le Indicazioni stia lì come omaggio formale al nuovo che avanza. Non credo sia un caso se le tecnologie sono presenti in quel documento in modo più che tradizionale: indicate nell’area linguistica come strumento per fare ricerca e comunicare, ma assenti nelle altre aree con la sola eccezione dell’area scientifica nella quale (e solo in quella) si parla di utilizzare criticamente strumenti informatici e telematici nelle attività di studio (forse che in altri contesti si possono/debbono utilizzare acriticamente?).

Le ICT non sono uno strumento a supporto dello studio, ma lo strumento di una intermediazione che modifica con la sua stessa presenza sia il punto di vista dell’operatore (lo studente, ma anche lo stesso docente) sia la materia trattata. Nel recente convegno organizzato da Treelle e dalla Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo, la dottoressa Sue Horner (già direttrice dell’Agenzia per lo sviluppo del curriculum nel Regno Unito) ha chiosato l’affermazione (ovvia?) secondo cui il curriculum non può restare statico, sottolineando che deve corrispondere ai cambiamenti della società e dell’economia oltre che a quelli della natura della scuola stessa.

Non si tratta insomma di aggiungere al curriculum l’ultima scoperta scientifica in ordine di tempo o le nuove opere dell’ingegno letterario o artistico né, tanto meno, di attualizzare con la cronaca recente la storia lontana: quello che cambia è la società e con essa la scuola, e i curricola di questo devono tener conto. La priorità non è dare più istruzione (“l’istruzione non è il riempimento di un secchio, ma l’accensione di un fuoco” diceva Yeats), ma far sì che gli allievi ricevano l’istruzione giusta (quella, appunto, che serve per accendere un fuoco).

Come bene ha detto il professor Bolondi nella discussione che si è sviluppata in queste settimane sulle Indicazioni nazionali, sia Platone che Sant’Ignazio che Luigi Cremona hanno, a secoli di distanza, ragionato su Euclide in modo analogo (diciamo che lo avrebbero considerato parte essenziale del curriculum!), ma gli obiettivi di apprendimento che avevano in mente erano molti differenti.

Il punto è proprio questo: da una parte chi ritiene che vi sia un “magazzino ben fornito di notizie” al quale i dispensatori del sapere si riforniscono e dall’altra chi ritiene che il sapere si costruisce nel percorso di insegnamento/apprendimento; ieri per pochi, oggi (anche grazie alla tecnologia e allo sviluppo della ricerca didattica) per tanti. A condizione, come dice anche Bolondi, che si presti attenzione alla diversità degli obiettivi di apprendimento: fra un tempo e l’altro, ma anche fra una persona e l’altra.

Quindi, forse, sarebbe stato meglio che il primo punto di un ideale profilo culturale, educativo e professionale dei Licei fosse l’affermazione della necessità di un nuovo ambiente di apprendimento, adatto a facilitare la relazione fra le conoscenze possedute dai diversi attori (docenti e allievi), la loro verifica e, soprattutto, a valorizzare la funzione di quegli straordinari professionisti che sono i docenti, a partire dalla consapevolezza che la scuola è sempre meno il luogo dove si apprende e sempre più il luogo capace di dare significato a quanto si è appreso altrove.

Non credo che occorra chiarire che questa funzione è molto più complessa, difficile e impegnativa (ma anche più esaltante!) di quella di ospitare “lo studio delle discipline in una prospettiva sistematica, storica e critica” oppure “l’esercizio di lettura, analisi, traduzione di testi letterari, filosofici, storici, scientifici, saggistici e di interpretazione di opere d’arte”. Il rinnovamento dei processi di apprendimento (e cosa dovrebbero essere i nuovi Regolamenti se non questo?) deve basarsi sul dialogo e l’interazione costante fra i soggetti, in ambienti in cui coloro che apprendono possono lavorare aiutandosi reciprocamente e avvalendosi di una varietà di strumenti e risorse.

La domanda, però, è: a che serve tutto ciò? Ed è sulla risposta che sarebbe interessante e positivo confrontarsi. Intanto si potrebbe cominciare col dire che serve a legare e connettere le conoscenze, ad organizzare il proprio pensiero, a collegare e distinguere al tempo stesso; anche perché, mi sembra, è il solo modo per garantire non solo che “nessuno resti escluso”, ma soprattutto che “ognuno venga valorizzato”.

Se è vero che “il benessere della nazione dipende dall’arte, la destrezza e l’intelligenza di chi esercita il lavoro” (tradotto dal linguaggio di Adam Smith, significa l’abilità, la competenza e la conoscenza di ognuno), è quindi all’insieme di questi fattori che occorre guardare. E guai a noi se pensiamo che ognuno di questi si riferisce a una delle canne d’organo che tornano (in questa concezione) a caratterizzare il nostro sistema di istruzione. I liceali non hanno meno bisogno di competenze o abilità degli studenti dei professionali, e viceversa.

Valorizzare ognuno non è una caritatevole pulsione all’equità; significa invece fare l’interesse immediato e futuro della nazione, che finalmente si potrà liberare dall’idea, invero un po’ bislacca, che vi sia una scuola che forma la classe dirigente, un’altra per i tecnici e un’ultima per i lavori subordinati (gli “sfigati”, come si sa, vengono dispersi prima). A me sembra, in ultima analisi, che le Indicazioni siano certo bisognose di qualche miglioramento e di moltissimi chiarimenti, ma che vadano prima di ogni cosa contestualizzate, anche per evitare che possano essere lette camminando sì verso il futuro, ma a ritroso e con gli occhi rivolti al passato come l’Angelo della Storia di cui parla Benjamin.

E’ anche per questo che ho preso le mosse da Yeats. Il fatto che pochi mesi fa Max Bruschi (a cui va, tra l’altro, riconosciuto di aver contribuito a spostare la discussione sul merito chiamando in causa Giorgio Bolondi) abbia usato la stessa frase che ho posto all’inizio, mi autorizza a sperare di risparmiare al poeta (e indirettamente a me) il giudizio che Giorgio Israel scaglia su Edgar Morin definendo “strampalate” le sue teorie sull’insegnamento della complessità. Ma, come sappiamo, il vero pensiero dei protagonisti delle “baruffe” si svela nel finale: Israel infatti rimprovera a Morin (e a tanti con lui) di “pretendere di continuare a pontificare come se nulla fosse”. Argomentazione poco cortese, ma almeno chiara. Il conclave è convocato.