La scuola delle «competenze» demenziali

Giorgio Israel, da Orizzonte scuola 11.12.2009

Sulla pagina web del mio corso universitario una mano pia ha aggiunto: Modalità di erogazione: convenzionale. Cosa sono io? Una una pompa di benzina, un gasometro, un elettrodotto? In realtà, chi ha fatto quell’aggiunta non poteva agire diversamente perché si tratta di norme imposte dalla “trasparenza” e l’università deve piegarsi a queste normative burocratiche per quanto offensive per la cultura. E bisogna anche subire quel “convenzionale”. Pazienza se si fosse detto “tradizionale”; ma convenzionale significa «stabilito per convenzione, per accordo». Quale sarebbe qui la “convenzione”?

Il linguaggio demenzial-burocratico è anche cinghia di trasmissione della trinità che scende dall’empireo pedagogico: «conoscenze/competenze/abilità». Non chiedete all’empireo una definizione esatta della trinità: non ve la saprà dare e non esiste un accordo su di essa, sebbene sia un luogo comune anche a livello comunitario. Ma questo non vuol dir niente: di baggianate europeiste siamo sommersi. I poveri docenti che tentano di mettersi in regola in tempo non si raccapezzano. Passi per le conoscenze: ad esempio, conoscere le equazioni di secondo grado. Passi pure per le abilità: saperle risolvere. Ma molti confondono le abilità con le competenze e dicono che il loro corso farà acquisire la conoscenza del tal concetto nel senso di «comprenderne il significato» e la competenza nel senso di saperlo «usare». E sbagliano, perché questa è l’abilità mentre la competenza è qualcosa di più, come la comprovata capacità di usare conoscenze e abilità metodologiche, personali, relazionali e anche affettive per risolvere problemi, affrontare situazioni. Insomma la competenza sarebbe l’agire personale basato su conoscenze e abilità.

A cosa servono questi marchingegni? A battere il nozionismo, si dice. Perché chi si ferma alle conoscenze non è detto che sappia usarle e tantomeno metterle in opera “abilmente” per risolvere problemi e affrontare situazioni. In realtà, sono temi chiari dai tempi di Socrate, senza bisogno di ricorrere a simili esplosioni definitorie. È da sempre nella tradizione della matematica e della fisica – e anche di tante discipline umanistiche come quelle filologiche – la consapevolezza che conoscere concetti non vuol dir niente se non si sa farne uso fino a riuscire a metterli in opera per risolvere problemi complicati. Nelle celebri prove di ammissione alla École Politechnique parigina non si facevano certo interrogazioni di nozioni ma si proponevano difficili problemi che vagliavano le effettive capacità del candidato. Insomma, si è sempre detto e ripetuto che conoscere “a pappagallo” nozioni non serve a niente e che chi resta a questo livello è un incapace. Edgar Morin si è reso famoso con la frase secondo cui «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», che però risale a Montaigne. Fin qui non siamo alla scoperta dell’ombrello ma a quella dell’acqua calda. Secondo certi “teorici” il mondo finora è stato popolato di idioti e la capacità di formare gente colta e capace è nata con loro. Tutto il sapere che ci è stato consegnato è deficiente perché costruito da gente che non sapeva cosa sono le “competenze”.

Il problema è che il fatale trittico non è solo inutile, ma conduce a risultati disastrosi perché codifica una separazione a tre livelli; come se esistessero situazioni accettabili in cui uno possiede conoscenze ma non sa farne uso, oppure sa farne uso ma si blocca di fronte a un problema. È una distinzione che svilisce l’idea di conoscenza che è sempre stata pensata come inclusiva dei tre aspetti (giustamente mai distinti) e da valutare complessivamente. Distinguendo si introduce l’idea assurda che l’acquisizione assolutamente passiva di concetti sia una forma di conoscenza. Insomma, uno che conosca a menadito tutte le regole della “consecutio temporum” avrebbe un’ottima conoscenza del latino ma, essendo totalmente incapace di applicarle, non avrebbe competenze e abilità. In realtà, quella persona è semplicemente un ignorante crasso. Non potrebbe darsi un esempio più clamoroso della definizione di Hannah Arendt di certe teorie pedagogiche: «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità».

Il guaio è che questa insensata logomachia contiene un’idea ancor più insensata e cioè che, mentre le conoscenze non si possono misurare, le competenze sarebbero misurabili, il che consentirebbe di introdurre la “certificazione delle competenze” a scuola. In verità, gli “esperti” ammettono candidamente:

1) che esistono innumerevoli definizioni di competenze,

2) che misurare le competenze è praticamente impossibile.

Alla fine degli anni novanta si riunì una commissione mondiale per stabilire una definizione di competenza: ne vennero proposte a centinaia e non si venne a capo di nulla. Tra queste vi sono le definizioni forti – che tengono conto dei fattori affettivi e motivazionali, manifestamente non misurabili – e quelle deboli – che si confondono con le abilità – le quali forse si prestano a vaghissime misurazioni. Inutile dire che si trascura il fatto – omissione inammissibile per chi abbia una minima cognizione di metodologia scientifica – che per parlare di misurazione bisognerebbe introdurre un’unità di misura. Unità di misura delle competenze? Non facciamo ridere.

Il problema è che la legge 169/2008 e il decreto legislativo 59/2004 impongono che al termine della scuola primaria e secondaria di primo grado si rilasci allo studente la certificazione delle competenze. Finora, tutti i ministri hanno schivato l’incubo proprio perché non si sa come dare una definizione sensata di competenza. Ma l’obbligo incombe, anche perché “l’Europa lo chiede”, assieme all’introduzione della paletta di metallo per la pizza. Da un paio di anni le scuole hanno sperimentato l’improba certificazione in ottemperanza a una circolare ministeriale, costruendosi propri modelli. Presentiamo ai lettori uno di questi modelli, circolante in alcune scuole. Come si vede, l’unità di misura delle competenze è il numero delle caselle barrate… Ogni commento è inutile, per rispetto dell’intelligenza dei lettori. Mi limito a quello di un professore: «è l’annichilimento dell’autonomia professionale del docente da parte dei nemici giurati del buon senso».

Come potrà mai il ministero produrre un modello sensato per regolare una materia intrinsecamente insensata? L’unico consiglio che si potrebbe dare ai ministri Gelmini e (per la semplificazione) Calderoli sarebbe di avviare l’abrogazione secca delle disposizioni legislative sulla “certificazione delle competenze”. (già pubblicato ne Il Giornale del 15 novembre 2009)

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