Professori sull'orlo di una crisi di nervi.
Flavia Amabile da
DocentINclasse, 7 febbraio
2007
C’è una maestra che (forse) lega dei bambini di
tre anni alle sedie per farli stare buoni. C’è la supplente di
matematica trentenne che si fa scoprire mezza nuda in aula mentre
tiene una sorta di lezione porno ad alcuni ragazzi tra i 13 e i 15
anni. C’è il professore che assiste, inerte, alle provocazioni dei
suoi studenti e c’è la maestra che si barrica in aula con i bambini.
Nessuna scuola faccia eccezione: capita alle materne, alle primarie,
alle superiori. Né si può invocare il degrado, la periferia, il Sud.
Accade da Palermo alla Valle d’Aosta, senza distinzioni di latitudine.
E non è nemmeno una questione di età o di sesso. Il problema si
presenta ovunque e comunque. Verrebbe da chiedersi: maestri e
professori stanno forse diventando tutti matti? Purtroppo la risposta
non è un bel «no» deciso, come piacerebbe a chiunque abbia un figlio
in una scuola. Il problema esiste, grande e grosso, e ha un nome: burnout. Maestri e professori dopo un po’ di anni nelle aule
scoppiano.
Chi può fugge. Quest’anno secondo le prime previsioni circa 32 mila
tra maestri e professori andranno in pensione, il numero più alto
degli ultimi dieci anni, quasi diecimila in più rispetto a quanto
previsto nella Finanziaria e soprattutto un record assoluto in un
Paese in cui impera la gerontocrazia.
«L’insegnamento logora», sintetizza il professor Bollea. Finora se lo
dicevano soprattutto fra loro i docenti, al massimo lo venivano a
sapere i presidi. Poi arrivò un medico, Vittorio Lodolo D’Oria. Studiò
il fenomeno, poi lo scorso anno diede alle stampe un libro dal titolo
illuminante: Scuola di follia. All’interno, storie di professori, ma
anche di studenti, genitori, dirigenti alle prese con problemi
psichici, e però non sono tanto i «casi» a far riflettere, quanto i
numeri raccolti in anni di ricerche: su 3.447 dipendenti pubblici,
maestri e professori sono risultati i più «scoppiati» di tutti. Quasi
metà degli insegnanti dell’indagine è risultata affetta da patologie
psichiatriche, il doppio di quel che accade ad impiegati, operai o
infermieri. Questo sia che si tratti di insegnanti donna sia uomini o
che si lavori con bambini di 5 anni o ragazzi di 15.
Due volte più numerosi, ma dieci volte più pericolosi. «Le pratiche di
un ufficio possono pure continuare a essere sbrigate anche se si è
colpiti da burnout», spiega Tullio De Mauro, ex ministro della
Pubblica Istruzione nella prefazione al libro di Lodolo D’Oria.
«Invece alunni, famiglie, colleghi non sono pratiche da smaltire».
Anzi. L’insegnante scoppiato «fa da base alle patologie
psichiatriche».
Di fronte a un insegnante che crolla che cosa accade? In base a un
altro studio, curato sempre da Vittorio Lodolo D’Oria insieme con
altri esperti, emerge che oltre la metà dei dirigenti scolastici si è
occupato almeno una volta in prima persona di un docente con un
problema di disagio mentale professionale ma che meno di un dirigente
su cinque è a conoscenza dei rischi di salute di origine professionale
negli insegnanti, e tutti sono poco e male preparati su come gestire
in modo corretto il caso. Dunque sempre più insegnanti soffrono di
stress, depressione, esaurimento, ma pochi sanno riconoscere il
problema e come occuparsene. Una situazione esplosiva che fatica ormai
a rimanere confinata all’interno delle scuole. A fine novembre è
emerso il caso di due medici legali dell’Asl 5 di Torino. Hanno
inflitto una multa – la prima in Italia – tra i mille e i 4 mila euro
a quattro dirigenti scolastici di altrettanti istituti di Rivoli che
non avevano previsto né mobbing né burnout nel documento di
valutazione dei rischi delle loro scuole. In altre parole: il problema
esiste e chi fa finta del contrario nei documenti ufficiali è fuori
legge. Mai accaduto prima d’ora nulla di simile, e ora al ministero
della Pubblica Istruzione hanno insediato un team di dirigenti del
dicastero e di esperti per studiare come comportarsi.
Le piste da seguire nella disperata ricerca di una soluzione sono
numerose. «Il 60% dei docenti è entrato ex-lege, non ha mai superato
concorsi per l’abilitazione né ha seguito scuole di specializzazione»,
spiega Luisa Ribolzi, docente di Sociologia dell’Educazione alla
facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, da anni
esperta di docenti e formazione. Tutto lecito, chiaramente, e allora
qual è il trucco? «Bastava avere totalizzato 360 giorni di
insegnamento tra il 1994 e il 1999 per avere diritto a entrare nei
corsi riservati, 90 ore e si diventava insegnanti di ruolo», spiega
Marcello Pacifico, presidente dell’Anief, l’associazione che riunisce
insegnanti e educatori in formazione. Una scorciatoia fra tante: 29
sono stati i provvedimenti ope legis autorizzati negli ultimi
cinquant’anni, ha calcolato l’Associazione Treelle in un recente
convegno sui precari. Chiaro quindi che a salire in cattedra sia meno
del 3% di ha frequentato le Ssis, le scuole di specializzazione che
negli altri Paesi d’Europa rappresentano l’unica forma di reclutamento
di nuovi docenti: 1.200 ore di studio, un impegno quattordici volte
superiore rispetto ai precari entrati con la scorciatoia.
Con i dati si potrebbe andare avanti a lungo. In tutte le scuole
italiane si contano quasi 10 mila dirigenti, 800 mila insegnanti e
praticamente nulla in mezzo, aggiunge Luisa Ribolzi. Non esistono i
ruoli intermedi, così normali all’estero: dagli addetti ai controlli,
ai coordinatori di area, agli insegnanti con mansioni speciali.
Ancora: c’è un insegnante di ruolo ogni 9-10 studenti. Tanti, se si
tiene in considerazione che negli altri Paesi la media è di un
insegnante ogni 14 studenti. Tantissimi, se aggiungiamo i 242 mila
precari abilitati che come età media hanno sui 39 anni.
Messi così in fila, i numeri confermano quel che la cronaca lasciava
intuire: nelle scuole insegnano tanti docenti depressi, frustrati,
poco preparati ad affrontare il proprio e l’altrui disagio. Sul web
proliferano i blog dove si va a scaricare la disillusione, dove si
raccontano giornate vuote, inutili, mattine trascorse a combattere
contro ragazzi indisponenti, indisciplinati, impossibili da tenere in
riga, pomeriggi trascorsi a discutere con genitori e con colleghi
senza che questo porti ad alcun risultato. La scuola vista da chi
ancora tenta di impegnarsi diventa un nuovo Deserto dei Tartari,
difficile da attraversare se non si è sufficientemente sereni ed
equilibrati. E chissà quanti di loro lo sono. Né i maestri né i
professori superano un test psicologico, se qualcuno ha problemi lo si
vedrà in classe, dal contatto con gli alunni. «Manca un consenso da
parte di esperti sulla proponibilità e la validità di test ai fini
della selezione all’insegnamento; dalla difficile praticabilità e
dalla convinzione che efficaci processi di formazione e di gestione
del personale possano garantire maggiore affidabilità», si difende
Mario Dutto, direttore generale del ministero di Pubblica Istruzione
per gli ordinamenti scolastici. Sulla formazione rispondono le cifre.
Sui controlli, il giudizio di un’esperta come Luisa Ribolzi è che ci
si trovi davanti a procedure del tutto «informali».
«Esiste la possibilità per l’amministrazione scolastica di sottoporre
a visita collegiale segnalando anche aspetti riferibili a patologie
relazionali e, in caso di valutazione negativa di esclusione
dall’insegnamento», si difende ancora Dutto. Ma è accaduto accaduto
rarissime volte», aggiunge Luisa Ribolzi. E quindi diventa possibile
che una maestra con molti anni di insegnamento alle spalle non sia in
grado di tenere a freno dei bambini senza usare metodi ai limiti della
coercizione, o che dei supplenti si lascino travolgere dalle
esuberanze di un gruppo di adolescenti. Diventa anche comprensibile
che, chi può, dalla scuola scappa: nel 2006 hanno chiesto di andare in
pensione il 40% dei professori in più rispetto all’anno precedente,
una cifra da grande fuga.
I consigli su come intervenire non mancano. «Rivedere è il meccanismo
delle graduatorie che rappresentano la piaga principale», è la ricetta
di Luisa Ribolzi. «Portare ad esaurimento la graduatoria dopo averla
congelata, interrompendo l’aggiornamento dei punteggi e l’ingresso di
nuovi candidati e rendere le supplenze indipendenti dal reclutamento»,
aggiunge Attilio Oliva, presidente dell’associazione Treelle. E poi:
«Mandare in pensione il concorso per dare validità alle scuole di
specializzazione a numero chiuso a cui accedere sulla base di una
attenta programmazione collegata alla disponibilità di posti». In
altre parole, entra chi si è specializzato, nessuno sconto per i
supplenti e i precari solo perché hanno totalizzato ore ed ore di
insegnamento nelle classi.
Il ministro Fioroni per il momento ha promesso che entro due o tre
anni tutti i precari entreranno nella scuola «perché sono
professionisti con tutte le carte in tegola, lavorano quotidianamente
da 7-8 anni ma anche da 11 con i nostri figli. Porsi la domanda se
hanno o meno la capacità è un po’ tardivo». Quanto ai docenti del
futuro, il ministero è al lavoro.
Ma gli esperti di Tuttoscuola.com hanno calcolato che per lo
smaltimento dei precari saranno necessari molti più anni di quel che
spera il ministro Fioroni. Almeno dieci. Nel frattempo? Se l’Italia
avesse un regista del calibro di Almadovar lo vedrebbe girare per
istituti a raccogliere racconti per scrivere un grande film. Titolo?
Maestri e professori sull’orlo di una crisi di nervi. F.A.