Scuola di base, una riforma senza riforma?
Gianni Gandola, Federico Niccoli, da
ScuolaOggi del
24/11/2005
Scuolaoggi ha sin dall’inizio riconosciuto un
merito all’iniziativa di Retescuole: quello di andare finalmente al di
là della logica “abrogare la Riforma Moratti sì/no” e di passare ad
una fase propositiva.
Quello di aprire cioè una discussione nelle scuole, andando
oltre la
pura opposizione ed il “rifiuto”, cominciando a dire “quale scuola
vogliamo”. Per questo abbiamo preso sul serio la bozza di legge di
iniziativa popolare elaborata e proposta alla discussione e
continuiamo a dare il nostro contributo critico. Nel merito, appunto.
Vorremmo che anche questo venisse preso in considerazione. Altrettanto
seriamente.
Un altro aspetto, allora, della bozza di legge di Retescuole (oltre
alla “questione organici”) che ci lascia perplessi è il fatto che –
per quanto riguarda la scuola elementare e media – si propone
sostanzialmente la cancellazione della legge Moratti e il ritorno allo
status quo ante.
Sul piano ordinamentale infatti l’abrogazione della legge Moratti non
comporterebbe per Retescuole il ripristino della precedente legge di
riforma approvata dal parlamento (la legge n.30/2000, il riordino dei
cicli del min. Berlinguer) ma piuttosto il ritorno alla legge
preesistente, la n.148 del 1990.
Abbiamo già detto che riteniamo non vi siano le condizioni per
riproporre la legge sul riordino dei cicli, regolarmente approvata da
una maggioranza parlamentare ma osteggiata non solo dalla Casa delle
libertà, che appena al governo l’ha abrogata, ma anche da settori
della sinistra e del sindacalismo confederale (vedi ad es. la Cisl) e
non.
Quella riforma aveva però, nonostante alcuni limiti intrinseci, un
grosso merito: quello di rompere la “separatezza” della scuola di
base, attualmente divisa in tre segmenti (scuola materna, scuola
elementare e scuola media), ricomponendola in un disegno organico ed
unitario (il settennio di base), nella prospettiva di un curricolo
unitario e continuo.
Una proposta di legge, che voglia avere l’ambizione di una
riforma
non può limitarsi ad un elenco di
rivendicazioni: deve “volare alto” e riprendere le ragioni della
continuità educativa, già delineate dalla ricerca psicopedagogica e
dalle stessi leggi, in particolare quella di riforma della scuola
elementare, frettolosamente archiviata dalla Moratti.
Nel campo educativo occorre mettere in moto un processo virtuoso per
praticare l’obiettivo di una pluralità di possibilità di attuazione:
- continuità-circolarità tra
scuola/famiglia/territorio
- continuità tra discipline
- continuità tra progetti informativo/formativi
da inserire nei piani didattici
- continuità tra realtà ed immaginazione
- continuità tra metodo – metodologie –
obiettivi – strumenti e verifiche
- continuità tra tappe evolutive, motivazioni e
interessi, percorsi scolastici
- continuità per la salvaguardia dell’unitarietà
del sapere e del suo esito transdisciplinare
- continuità come multicontestualizzazione delle
conoscenze nell’esperienza del ragazzo
- continuità come rapporto-raccordo tra
conoscenza – emozioni e affetti.
Le ragioni pedagogiche e culturali indicate sono
robustamente supportate dalla legge 148 di riforma della scuola
elementare e dai relativi programmi, che hanno assunto la continuità
educativa come principio fondamentale:
-
art. 1 L. 148/90: “la scuola elementare, anche
mediante forme di raccordo pedagogico, curricolare ed organizzativo
con la scuola materna e con la scuola media contribuisce a realizzare
la continuità del processo educativo”
-
DPR 104/85: “la continuità del processo
educativo è condizione essenziale per assicurare agli alunni il
positivo conseguimento delle finalità dell’istruzione obbligatoria”
Anche le disposizioni appena richiamate
introducono con forza l’esigenza di un percorso formativo
unitario/organico per ogni ragazzo della scuola dell’obbligo, rompendo
lo schema tradizionale della compartimentalizzazione tra i vari
“gradi”. Per fornire il progetto-continuità delle giuste “gambe
pedagogiche” è opportuno, da una parte, negare ogni pretesa di interna
autosufficienza culturale e psicopedagogica dei vari segmenti della
scuola dell’obbligo e dall’altra, fondare il continuum educativo nelle
impostazioni pedagogiche specifiche che riconoscono e valorizzano la
pari dignità educativa dell’azione di segmenti di una scuola di base
unitaria pur nella dinamica della diversità delle fasi di sviluppo
dell’età evolutiva degli alunni.
Ora, la proposta di Retescuole dimentica, nell’attuale panorama
scolastico, un dato di realtà importante: oggi almeno il 45% delle
scuole è formato da istituti comprensivi. Sappiamo benissimo che gli
istituti comprensivi si sono sviluppati sulla spinta di ragioni di
tipo amministrativo prima ancora che pedagogico (il problema del
“dimensionamento”, del numero di alunni necessario per il
riconoscimento dell’autonomia agli istituti scolastici). Ma occorre
anche ricordare che esisteva una corrente di pensiero (il riferimento
a Giancarlo Cerini è d’obbligo), come pure una precedente esperienza
di alcune decine di istituti comprensivi “sperimentali” che invece
poneva il significato pedagogico ed il “valore” di queste esperienze
prima di tutto.
Nella proposta di legge di Retescuole leggiamo solo uno scarno
riferimento agli istituti comprensivi, come fatto del tutto residuale,
senza farne il cardine di una nuova progettualità. Tantomeno il perno
di una nuova ossatura della scuola di base. Tant’è che la proposta di
legge di Retescuole altro non fa che rilegittimare e consolidare la
struttura preesistente (la “scuola di base” prefigurata dalla proposta
di legge si articola in scuola dell’infanzia, scuola primaria e scuola
media, con la loro specificità, autonomia e distinzione).
L’unico accenno agli istituti comprensivi che troviamo nel testo
(“A partire dalla verifica
dell’esperienza degli Istituti Comprensivi, il Ministero della
Pubblica Istruzione promuove e sostiene, con appositi progetti,
percorsi di raccordo da attuare tra docenti, con gli/le alunni/e e con
il coinvolgimento delle famiglie.”) è
decisamente generico e indeterminato.
Si pensa veramente che questo possa bastare a garantire il cosiddetto
“governo delle discontinuità”? L’esperienza di anni insegna che non
bastano forme di raccordo, più o meno estemporanee, tra le scuole
(incontri tra gli insegnanti della quinta classe della scuola
elementare e della prima media) se non c’è un raccordo organico,
strutturale fra le scuole stesse all’interno di un unico istituto.
Ci troviamo, oggi, in presenza di due diverse ipotesi di governo della
discontinuità, ugualmente deboli e contraddittorie:
a) la proposta governativa, sostenuta dal
prof.Bertagna, che - dopo aver individuato correttamente le tre
dimensioni che fondano la continuità (continuità orizzontale,
continuità verticale e intreccio tra interventi per le due dimensioni
e attese di maturazione dell’autonoma evoluzione di ciascuna di esse)
- affida la soluzione del complesso problema a documenti
prevalentemente cartacei: il pecup (profilo educativo culturale e
professionale), i psp (piani di studio personalizzati), il portfolio
delle competenze e ad un personaggio in cerca di autore, il famoso
tutor, definitivamente seppellito dalla operatività della scuola reale
b) la proposta di Retescuole che immagina virtù
salvifiche per l’attuazione di progetti di continuità nell’aumento
indiscriminato del personale educativo (si veda il nostro precedente
intervento sulla questione degli organici).
In nessun caso viene affrontata con coerenza
l’esigenza indifferibile dell’inalienabile diritto dell’alunno ad un
percorso formativo organico e completo, contrassegnato dalla ricerca
di una unità di significato tra ciò che si è fatto ed appreso prima in
un determinato modo e con determinate scelte organizzative e quanto si
intende fare ed insegnare adesso e dopo in un altro modo e con altre
modalità organizzative, soprattutto
nelle classi ponte.
In questo quadro si inserisce la questione degli istituti comprensivi:
che vogliamo farne? Abolirli? Lasciarli così come sono, mantenendo la
separatezza tra elementare e media all’interno dello stesso istituto?
Noi pensiamo che se da un lato sarebbe profondamente sbagliato
cancellare queste esperienze dall’altro il mantenimento dell’attuale
realtà sia una risposta insoddisfacente, perché gli IC sono stati
praticamente lasciati in mezzo al guado, senza respiro strategico e
senza risorse adeguate per un loro sviluppo coerente. Non è casuale
che la legge di riforma Moratti, la legge 53/2003, neanche li menzioni
(esistono, li “sopportiamo” ma senza attribuire loro alcun particolare
significato di rilievo, che non sia di tipo meramente
amministrativo…).
Sappiamo bene che gli attuali IC il più delle volte (salvo rare ed
encomiabili eccezioni) altro non sono che aggregazioni di docenti dei
due ordini di scuola che restano però sostanzialmente “separati in
casa”. Come pure sappiamo che le attuali condizioni di esistenza e
sopravvivenza di questi istituti sono tutt’altro che agevoli e
funzionali.
Occorre allora, come Scuolaoggi ha già sostenuto in un precedente
articolo, ripensare i comprensivi (*). Sul piano strutturale innanzi
tutto. Occorre abolire gli istituti monstre, gli IC che hanno
dimensioni eccessive (1200 alunni!) e tornare a numeri più gestibili
(gli IC sperimentali erano istituti con circa 500 alunni, massimo
700). Occorre prevedere figure di staff da affiancare al dirigente
scolastico, che non può essere onnicomprensivo e onnipresente. Occorre
lavorare per modificare lo stato giuridico dei docenti, che non
possono essere di serie A (quelli della media) e di serie B (quelli
dell’elementare). Occorre prevedere (almeno) un vero e proprio anno di
saldatura con docenti dei due ordini di scuola che interagiscono nella
gestione della stessa classe, in termini di uso di un organico
effettivamente “funzionale”… Occorre riprendere mano e lavorare alla
costruzione di un curricolo unitario (altro che la miseria delle
attuali Indicazioni nazionali!)…
Insomma questa esperienza va davvero rivisitata e riproposta, con i
necessari correttivi. Secondo noi questa può essere la vera riforma
della scuola primaria o meglio della scuola di base, superando in
avanti la riforma Moratti e andando oltre la stessa legge 148/1990.
Un accenno fuggevole ed estemporaneo, in un contesto che lascia
sostanzialmente inalterato l’ordinamento esistente (scuola elementare
da una parte, scuola media dall’altra) non è sufficiente. La riforma
Moratti la si supera delineando progressivamente gli elementi di un
reale cambiamento, di una vera riforma della scuola di base, non con
il semplice ritorno al passato.
Note
(*) vedi “Ripensare
gli istituti comprensivi”
di Dedalus, in “Cerca in Scuolaoggi”