“La conoscenza all’indice: la burocratizzazione dell’ università
e della scuola tra dirigismo e (s)valutazione del sapere.”
Napoli, 7 ottobre 2013, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,

La sostanza della scuola
è L’animo dei professori e dei Maestri

di Gennaro Lubrano Di Diego, 7.10.2013

Innanzitutto buonasera a tutti.

Vorrei in primo luogo rivolgere un ringraziamento all’amico Bartolo Costanzo, alla cui lodevole iniziativa e caparbia lucidità dobbiamo la promozione di questo interessante incontro nel quale discutiamo sostanzialmente di un moribondo: un moribondo in cerca di riscatto, un moribondo in cerca di una salvezza possibile. E cioè la cultura e la conoscenza all’interno delle istituzioni educative: scuola e Università, sperando, credo, di non dover stasera celebrare, qui, la definitività di un decesso irreversibile. Anche se taluni inequivocabili segni farebbero propendere per questa ipotesi.

Io non sono un tecnico di questi temi, né un professionista che ha fatto della ricerca su queste questioni la propria carta d’identità professionale.

Io sono solo un insegnante, un insegnante di Storia e Filosofia, in un Liceo napoletano che vive da vicino le patologie della scuola e della cultura nella scuola e che, sul campo, ha maturato una serie di convincimenti che spero di poter offrire con chiarezza alla meditazione comune stasera.

Qualche anno fa, era il 2009, proprio in queste prestigiose stanze, intervenendo alla presentazione di un libretto sulla scuola che avevo scritto per GUIDA e che si proponeva di rivendicare, nonostante tutto, la meraviglia dell’educare e le sue delizie, nonostante, appunto, le devastazioni tra le quali esso si trova a vivere, notavo come i carnefici della scuola italiana potevano essere indicati in:

a) un certo aziendalismo pacchiano e tronfio

b) un sindacalese ideologico e corporativo e come tale sostanzialmente conservatore e retrivo

c) infine, un pedagogismo pretenzioso e vacuo che faceva da alibi alla diserzione culturale degli insegnanti, in buona parte incapaci oramai di rivendicare la valenza formativa, morale e civile, dei contenuti che essi erano chiamati a insegnare

Ecco, a distanza di più di quattro anni, oggi la condizione nelle scuole mi sembra essersi vieppiù aggravata.

Infatti, a quei nemici della autentica esperienza educativa e formativa si sono aggiunti due altri pericolosi compagni di strada, che avanzano con la solennità volgare di certi vincitori e perciò risultano insensibili e sordi a qualsivoglia tentativo di contestazione e di correzione, che chiami in causa gli effetti dei disastri che negli altri Paesi si sono prodotti per seguire determinate ricette pedagogiche e di filosofia scolastica.

Il primo di questi nuovi avversari della cultura nelle scuole si chiama “valutazione oggettivistica” delle prestazioni, sia degli studenti sia in prospettiva dei docenti, il secondo, direi che ne costituisca la premessa, ed è un certo statalismo burocratico-amministrativo che esprime, oggi più chiaramente che mai, in una forma non repressiva o hard, ma conformistica benchè non meno oppressiva, la sua vocazione normalizzatrice e manipolatoria, evidenziando in maniera plateale, forse, come nello Stato moderno la scuola ha sempre obbedito ad esigenze di controllo e di pura riproducibilità degli indirizzi ideologico-culturali vigenti, oltre che essere articolazione funzionale dei sistemi sociali.

In relazione al primo dei nuovi “barbari” che invadono la pedagogia e la scuola, vorrei subito dire che va sgombrato il campo da un equivoco.

Almeno, secondo me.

E cioè, qui non è in questione la necessità di accertare, attraverso indagini conoscitive a cui poi corrispondano sanzioni e meriti, la qualità delle prestazioni intellettuali che si esprimono in una scuola, sia da parte dei docenti che da quella dei discenti.

Non è cioè, in questione la necessità di “valutare” il lavoro che si fa in un aula e in una scuola. Questa è una esigenza sacrosanta, secondo me, dei sistemi sociali ed eluderla, evitarla oppure opporle sempre un “benaltrismo ideologico e cialtrone”, qualifica semplicemente una volontà politica di tipo corporativo e conservatore oppure un pedagogismo pericoloso e deresponsabilizzante, che con i più vari argomenti, spesso molto speciosi, tenta di sottrarsi ad un dovere professionale oltre che morale: cioè render conto della qualità di ciò per cui si è chiamati ad occupare una determinata funzione o figura professionale.

Altra cosa è, il giudizio sulla ossessione oggettivistica del valutare che si va facendo sempre più strada nelle scuole e che aspira e pretende di giudicare le prestazioni intellettuali come se ci trovassimo di fronte al grasso di una fetta di prosciutto.

Il contrafforte culturale di queste pretese valutative è costituito dalle diffusione di un neopositivismo ideologico applicato ai temi della valutazione che, con una classica operazione mistificatrice, pretende di ridurre tutto a quantità uniformi e standardizzate, occultando però la circostanza che chi fa questa operazione usa e manipola criteri qualitativi e giudizi di valore, negando di dichiararli esplicitamente.

Tutta la polemica sui Test INVALSI nasconde questo grossolano equivoco e questa vera e propria truffa culturale ai danni dell’elemento centrale dell’educare, che ne definisce senso e responsabilità, cioè l’elemento della Soggettività.

In altri termini, con una retorica insulsa e sorda ad ogni critica, e che sembra una delle espressioni particolari di quel conformismo aggressivo del politically correct che si esprime anche in altre dimensioni dell’agire associato, l’ossessione oggettivistica del valutare vorrebbe requisire e liquidare l’elemento della Soggettività, che è dell’esperienza educativa nel suo complesso l’asse centrale e imprescindibile.

Perché questa diserzione della Soggettività?

Perché questa negazione ideologica sistematica dell’elemento soggettivo dell’educare e del valutare?

Ecco, qui la questione, secondo me, è complicata dal convergere di diversi fattori di varia natura e peso.

Una prima ragione di carattere generale che mi interessa sottolineare di questa slavina formativa che vive la scuola risiede, secondo me, nella crisi irreversibile delle pedagogie neoilluministiche e neo marxiste ma anche cattolico-liberali che, se non hanno totalmente informato le politiche sulla scuola, hanno certamente negli ultimi decenni orientato il lavoro di molti docenti.

Ora, io credo che questo collasso per certi versi sia stato doveroso e salutare, considerato che dobbiamo ricondurre purtroppo anche a queste impostazioni ideologiche la destrutturazione integrale del principio di autorità e di responsabilità così essenziali nel processo formativo ed educativo.

Tuttavia, la crisi di questi impianti pedagogici, che hanno innervato per decenni la formazione, ha lasciato un vuoto e questo vuoto tende ad essere pericolosamente riempito da una pericolosa mistura di scientismo impersonale e di millenarismo tecnico e tecnologico.

Il fondamento epistemologico di tutte queste ricette educative è assai dubbio ma la loro ricaduta è devastante.

Infatti, il predominio di un’idea tecnica e funzionalistica del sapere e della formazione ha comportato la proliferazione nauseabonda di questo metasapere metodologistico e valutativo, che presume di surrogare la difficoltà di veicolare i contenuti del sapere e della formazione facendo ricorso a tecniche, a metodiche improbabili e anzi ad un uso ideologico del Metodo giocato contro i contenuti.

Contro tutto ciò, che secondo me definisce proprio una metastasi della formazione, mi piace citare un’espressione di Giorgio Israel, che per molti versi si può considerare un riferimento obbligato per chi intende reagire a questo clima pesante e incolto che si vive nelle scuole.

Infatti, Israel scrive:

“La relazione tra docente e allievo nell’apprendimento non può essere ridotta a un problema tecnico e non esistono didattiche operative che garantiscano un buon trasferimento delle conoscenze dall’insegnante all’alunno.

Il processo di apprendimento si basa su un rapporto tra persone, in cui l’adulto comunica, anzitutto, attraverso la materia o l’attività che svolge, un’ipotesi di significato che vive in prima persona, e l’allievo impegna la sua libertà nella verifica, talvolta faticosa ma sempre appagante, della scelta di una strada esistenziale, culturale e professionale che si chiarifica seguendo i Maestri”.

Più chiari di così, forse, non si poteva essere.

Israel, e modestamente io con lui, sostanzialmente che cosa dice?

Dice che nell’educare, accanto ad un pieno governo dei contenuti delle discipline insegnate e ad un uso non ideologico ma accorto, stimolante e sapiente delle metodologie, quello che conta davanti agli studenti, è incarnare un’ipotesi di senso, una prospettiva di significati da offrire alla loro libera e meditata scelta e determinazione. Un’ipotesi di senso che, possibilmente viva del confronto critico della Tradizione culturale che abbiamo ereditato con il nostro presente.

 questo nella ferma convinzione che educare significa fondamentalmente incontrare e farsi carico dell’umanità in fieri dello studente.

Ora, probabilmente, nel massiccio ricorso a questa frenesia positivistica, influiscono anche i particolari interessi delle consorterie sindacali e politiche e delle burocrazie ministeriali, che consapevoli del collasso qualitativo della docenza in questi anni, delle mancate riforme sul terreno della sua selezione, a cui essi hanno partecipato attivamente, hanno visto nella mitologia informatica, tecnologica, in questa poltiglia positivistica della “valutazione presuntamente oggettiva” il surrogato di una formazione dei docenti andata definitivamente a ramengo, e che è il vero problema con cui fare i conti.

Il secondo ospite inquietante a cui facevo all’inizio riferimento e che, secondo me, costituisce la matrice politica e culturale da cui tutta la restante devastazione educativa deriva, è l’avanzare sempre più incontrastato del processo di burocratizzazione della scuola.

Ora qui non è il caso di richiamare le analisi di Weber sul mondo amministrato o le intuizioni che Nietzsche ebbe alla fine dell’800 sulla incipiente riduzione della scuola ad una fabbrica di impiegati dequalificati.

Queste analisi sono la cornice indiscutibile per centrare la sostanza dei problemi che ci troviamo a discutere.

Ma accanto ad esse, è da un po’ di tempo che vado interrogandomi su un altro elemento che può avere aggravato la condizione dell’educare nella scuola.

E cioè l’assetto centralistico ed inevitabilmente burocratico che la scuola dall’Unità d’Italia ha assunto.

Certo, intendiamoci, per tutta una fase, che va da dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, in presenza delle piaghe civili e morali del tessuto sociale nazionale, è stato inevitabile e forse giusto che lo Stato si fosse caricato dell’onere dell’educazione e della necessità di promuovere la dignità umana attraverso la cultura e lo studio, e con effetti non sempre deprezzabili.

Anzi, a volte molto apprezzabili, se si pensa, con tutte le cautele del caso, alla Riforma gentiliana della scuola.


Ma ora?

Ora che gli effetti della alfabetizzazione di un popolo sono stati messi in cascina, ora che le masse sono state, per lo più, incluse e nazionalizzate, ora che i temi della cittadinanza consapevole si sono addirittura sovrapposti ai contenuti disciplinari, facendo diventare la Costituzione una specie di catechismo sottratto alla sua dimensione storica e politica, insistere su di un modello centralistico dell’educazione, figlio dell’impostazione illuministico-napoleonica, non produce, più problemi di quelli che risolve, replicando per sua stessa interna vocazione e necessità, nuovi analfabetismi, ammantati dei miti luccicanti della società della tecnica?

Non sarebbe, in altri termini, venuto il momento di sbaraccare, smontare questo Moloch burocratico della scuola di Stato e consegnare, con un approccio graduale, pragmatico, sperimentale, la scuola e l’educare alle iniziative della società civile? Restituendola, cioè, alla sua originaria matrice civile, la sola in grado di garantire quel rapporto personalistico con la cultura e gli studenti che la scuola dei grandi numeri concentrati ha fatto illanguidire?

Detto questo, e per evitare di accreditare in voi tutti l’idea di un pessimismo radicale delle mie valutazioni, io vorrei concludere passandovi un mio convincimento molto forte, che si è consolidato nei molti anni di pratica educativa.

Cioè, vorrei offrirvi la mia convinzione che per quanto si possa gestire amministrativamente la scuola e l’educare, per quanto la si voglia ridurre ad un’articolazione funzionale di processi di manipolazione e di controllo, la scuola e l’educare esprimeranno sempre dal loro interno sempre un paradosso.

Il paradosso, cioè, di rovesciare dall’interno della dimensione umana dell’attività educativa qualsivoglia impostazione che tenda a ridurla a pratica di indottrinamento e di imbonimento, hard o soft che esso sia. E ciò per la semplice ragione che nell’educare è in gioco un avvenimento umano, anzi un incontro che vive dello scambio e della relazione e che è perciò irriducibile a tecnica impersonale o a unilaterale forgiatura di menti.

Augusto Monti, infatti, prestigiosa figura di docente al Liceo D’Azeglio di Torino negli anni ’30 del secolo scorso e guida spirituale di una schiatta di allora giovani studenti destinati a ricoprire ruoli di primo piano nella cultura italiana del secondo Novecento (penso a Cesare Pavese, a Massimo Mila, a Giulio Einaudi e a tanti altri), si domandava:

“Che cos’è la sostanza della scuola?”

E rispondeva che essa è:

“L’animo dei professori e dei Maestri”

Insomma, insegnare se è quell’arte volta a galvanizzare la dimensione umana del rapporto educativo, contiene dentro di sé la forza di rovesciare ogni sua riduzione a inerte suppellettile di ideologie o a stanca protesi di pratiche amministrative.

Federico Enriques, prestigioso e mai sufficientemente valorizzato matematico italiano, sui testi di algebra e geometria del quale si sono formate generazioni di studenti.

Enriques, esprimendo delle valutazioni sulla didattica scriveva:

“Confessiamo francamente che il compito che ci è proposto è tremendamente, stavo per dire divinamente difficile.

Infatti se il nostro pensiero e la nostra parola debbono muovere l'attività del discepolo, bisogna che qualcosa di vivo che è in noi passi nello spirito di lui, come scintilla di fuoco ad accendere altro fuoco.

Ma per ciò occorre dunque che anche noi maestri - nell'atto d'insegnare - ripetiamo, non già il risultato freddo degli studi fatti, bensì il travaglio interiore per cui riuscimmo a conquistare la verità, ricreandone dunque la fatica nello spirito nostro, che si allarga e trascina insieme la scuola.

Vorrei bene spiegarmi su questo punto: la fatica di cui parlo è reale, non finzione ad uso didattico; infatti non è possibile che ripensiamo una difficoltà che una volta abbiamo vinto, senza scoprire nello stesso problema qualche altra difficoltà, che si risolve in una comprensione nuova e più alta; perché è falso che le cose elementari su cui torniamo per insegnarle, sieno facili al confronto della scienza superiore il cui possesso ci rende oggi orgogliosi davanti ai nostri scolari; perché infine codesto possesso medesimo è dubbio e vano, ridicolo l'orgoglio, se di fronte al discepolo ci presentiamo soltanto come discepoli, a ripetere un po' più meccanicamente la vecchia lezione appresa sugli stessi banchi, anziché come maestri, a recare una veduta nostra, più chiara e più larga."

Ecco, in queste belle parole di Enriques è compendiata magistralmente la magia dell’insegnare, in cui competenza e passione si sposano e rivivono continuamente nella relazione viva con lo studente.

Speriamo che questa magia possa continuare!

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