Lettera da una professoressa sull'Invalsi Pur riconoscendo l'importanza di rendere quanto più possibile omogenee le competenze dei ragazzi italiani, molti docenti si interrogano su alcune questioni legate alle prove Invalsi nel contesto dell'esame di terza media. Soprattutto in considerazione dell'attività concreta che si svolge nelle scuole e che porta gli insegnanti a non considerare soltanto l'intelligenza logica degli alunni. La risposta dei vertici dell'Istituto di valutazione sottolinea i vantaggi che la prova Invalsi offre, in particolare nell'indispensabile opera di autovalutazione delle scuole. di Milena Petrocelli, La Voce.info 5.7.2012 Perché misurare gli apprendimenti contestualmente agli esami di Stato? Perché la valutazione della prova Invalsi deve fare “media”? Perché gli alunni stranieri di recente inserimento devono sostenere la prova?
Alcuni insegnanti
dell’Istituto comprensivo “A. Gramsci” di Lodi Vecchio continuano a
porsi le stesse domande che, sappiamo, molti altri docenti italiani
si pongono: basta dare un’occhiatina alla rete, ai giornali di
questi giorni…. Cerchiamo di analizzare i tre quesiti posti. Chi opera nella scuola sa che il momento dell’esame di Stato pone delle complessità e delle contrarietà tra docenti che sono spesso molto difficili da governare; vediamo i ragazzi, forse per la prima volta nel triennio, in un contesto interdisciplinare; non è semplice l’obbiettività perché: a) discipline pratiche e tecniche si interfacciano con discipline teoriche; b) discipline per le quali la valutazione oggettiva è immediata, come matematica e lingue straniere, si misurano con discipline la cui valutazione oggettiva è più sfumata e meno lineare, come il tema di italiano e il colloquio orale. Dunque, perché in un contesto già sensibile e complesso porre un’ulteriore difficoltà? Non sarebbe meglio rendere la prova Invalsi un test a sé, somministrato magari prima dell’esame di Stato a maggio o a settembre direttamente dalla scuola secondaria di secondo grado? Ciò metterebbe a tacere l’insinuazione sottile che in alcuni istituti le correzioni vengano “aggiustate” a favore dei ragazzi per dimostrare l’efficienza dell’insegnamento in quella scuola. Che poi la valutazione finale debba comprendere anche il risultato della prova Invalsi è quanto meno sorprendente. L’esame non è un momento banale, come sappiamo tutti, è un momento conclusivo del ciclo d’istruzione dei ragazzi, ma anche un momento conclusivo di un progetto educativo e formativo che vede i docenti co-protagonisti dell’azione educativa. Perché inserire una prova così distante dalla nostra pratica quotidiana? Noi non lavoriamo così, non mettiamo la sola intelligenza logica al centro della nostra pratica educativa, noi riconosciamo le tante intelligenze dei ragazzi e delle ragazze: quella logica ma anche quella motoria, quella artistica, quella emotiva, quella pratico-manuale, quella intuitiva… E allora perché istituire in modo così preponderante l’esame come momento finalizzato esclusivamente alla misurazione dell’intelligenza logica? L’esame non è pluridisciplinare? E quindi perché deve fare “media” la valutazione della prova Invalsi? Fermo restando il valore che diamo a questa misurazione, si intende. È giusto e auspicabile che si omogeneizzino il più possibile le competenze dei ragazzi italiani, ma ci domandiamo perché? Qual è la finalità di questa indagine? Dove ci vuole portare? Un esempio: nella nostra scuola le prove sono andate abbastanza bene, ma chi analizza i dati conoscerà anche le condizioni di lavoro in cui noi docenti di Lodi Vecchio siamo costretti a operare? La realtà sociale del territorio è una variabile analizzabile? Sicuri che i risultati ottenuti in questa realtà di paese siano paragonabili ai risultati ottenuti in una grande città italiana dove i ragazzi hanno accesso ai mezzi pubblici, alle biblioteche cittadine, alle mostre, ai musei, ai teatri, ai cinema? Sicuri che la comparazione abbia senso? La letteratura sul tema ci dice (vedi le ricerche di Daniele Checchi sulla scuola in Italia) che la formazione è un complesso processo verso il quale operano tre variabili: la famiglia, il territorio e (ultima, non a caso) la scuola. E allora? Alla fine del ballo si pensa di poter individuare le scuole migliori e di qualità passando dai risultati dell’Invalsi? E dare un’occhiatina ai dati sull’abbandono? Premiare anche le scuole che riescono a tenere e contenere i ragazzi a rischio? Perché non sporcarsi le mani nelle scuole di frontiera e andare a controllare, non solo la regolarità dell’iter burocratico, ma anche i progetti spontanei, non pagati, non riconosciuti nel Pof (tanto non ci sono soldi), le ore investite a scuola con i ragazzi al pomeriggio? Nella nostra scuola questa pratica è da tempo una consuetudine. Ma sappiamo che è così in molte scuole, soprattutto, paradossalmente, in quelle in cui l’ultimo problema è la valutazione Invalsi. Il primo è andare a recuperare i ragazzi a casa il giorno dell’esame (da libro “Cuore”). Sui ragazzi stranieri la cosa si fa molto triste: “Prof, come è andato l’Invalsi?” Fino al giorno prima si destreggiava magari con l’alfabeto e i suoni della lingua italiana. Quel giorno deve riflettere su opzioni di scelta spesso ambigue, deve volteggiare tra ellissi narrative e scelte linguistiche sottili e postmoderne. Una vera ingiustizia. Le nuove generazioni di alunni stranieri appena arrivate in Italia, come ci confermano gli studi del Coe, sono cambiate, sono alunni spesso molto motivati all’apprendimento, tendono a professioni qualificate, vogliono essere valutati per ciò che sanno. L’Invalsi è spesso per loro uno sgambetto, sono destinati a uscire con una valutazione finale punitiva, perché il risultato dell’Invalsi fa media. Quando smetteranno di essere cittadini di serie B? Noi non lavoriamo così, non facciamo fare una gara di nuoto dopo un duro allenamento di ginnastica artistica.
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