SCUOLA
Cara Mastrocola, la libertà e Gentile Giovanni Cominelli, il Sussidiario 24.3.2011 Sulla pars destruens dell’intervista a Paola Mastrocola non si può che concordare. La scuola/le scuole stanno cessando da tempo di trasmettere il sapere. Sono diventate dei centri di socializzazione leggera. I ragazzi ci stanno benissimo, ma imparano sempre meno. Naturalmente, non dappertutto, non allo stesso modo, dipende dagli indirizzi e dai territori. Ciò che ormai è in crisi è la capacità delle generazioni adulte di passare il testimone ai loro figli. Il rischio è che questi, nello slancio della corsa a staffetta, oltrepassino il portatore del testimone, veloci, sì, ma a mani vuote verso il loro futuro. Che questo implichi una disruption drammatica della nostra civilizzazione va da sé. Tuttavia la pars destruens deve essere accompagnata da un’indagine rigorosa sulle cause e da una proposta di vie d’uscita. In caso contrario, appare ideologica e si presta, pertanto, a contestazioni del pari ideologiche.
Intanto, per la storia,
è l’anno 1962, non il ’68, quello del passaggio alla scuola di
massa. Ma già l’espressione “scuola di massa” è carica di ideologia:
perché è formulata nel linguaggio ideologico dell’opposizione
conservatrice del tempo all’unificazione della Scuola media, per un
verso, e della sociologia americaneggiante degli anni sessanta, per
l’altro. Come scriverà in Lettera a una professoressa don Milani,
uscita postuma, il passaggio non era stato progettato per passare
dalla scuola per le élites alla scuola di massa, ma alla scuola per
ciascuno. La pretesa non era che si costruisse un’eccellenza di
massa - ossimoro evidente - ma che il sistema scolastico costruisse
un’offerta educativa, in grado di incontrare le domande, le
intelligenze plurali e i talenti di ciascuno. Diventava di tutti,
perché era per ciascuno. Oggi: allorché il bisogno di Life Long Learning e di Life Wide Learning si è accentuato e raffinato, mentre le istanze di libera costruzione del Sé sono divenute più stringenti. Perché il sistema Casati-Gentile non cambia? Perché è ancora il più condiviso. La ragione decisiva, che ha unito l’amministrazione scolastica, gli insegnanti, le famiglie, i grandi giornali, la politica, i ministri e, udite! udite! anche i movimenti studenteschi del ’68, è stata che tutti quanti abbiamo gentilianamente considerato che la più autentica educazione dell’uomo e del cittadino potesse avvenire solo nel liceo. La formazione dell’uomo passa attraverso l’assimilazione dei classici della filosofia e della letteratura greca e latina; i classici sono scritti in greco e latino; dunque solo nel liceo... Si pensò di superare l’elitismo gentiliano attraverso una liceizzazione universale, che fu chiesta nell’autunno del 1970 a Frascati dai rappresentanti dei movimenti studenteschi al ministro Misasi. L’istruzione tecnica e professionale, l’esperienza lavorativa e artigianale non erano considerati, neppure dalla sinistra marxista, formazione dell’uomo e del cittadino. Perché preparavano alla subordinazione all’organizzazione capitalistica del lavoro. I quadri rivoluzionari venivano dai licei, solo qualche rara avis dai luoghi di lavoro. Ma lo stesso valeva per i movimenti cattolici studenteschi del tempo. Ecco perché la rappresentazione dello scontro sulle riforme, oggi, tra chi vorrebbe la tecnocrazia e le competenze e chi invece la formazione umana integrale e le conoscenze è del tutto artificiosa, non rispecchia lo scontro reale. In realtà, esso si svolge tuttora tra un modello gentiliano imbastardito e quello della personalizzazione e della libertà dei percorsi, della valutazione/certificazione dei risultati, dell’autonomia radicale della governance delle scuole, della consegna dell’educazione dal centralismo statale alle forze plurali della società civile. A proposito della valutazione: suo scopo non è valutare l’utilità formativa e sociale di Dante o Leopardi, ma, più modestamente, di accertare se l’alunno e, eventualmente, i suoi insegnanti conoscano o no questi due grandi. Niente di più. In ogni caso, il modello della personalizzazione è culturalmente minoritario, si sta facendo strada, a fatica, solo nei Paesi europei. Mastrocola vuole tornare al liceo serio, mostrando di condividere il presupposto fondamentale del gentilianesimo: che la formazione integrale dell’uomo e del cittadino si possa ottenere solo nel liceo. Non è minimamente sfiorata dall’idea che la formazione integrale dell’uomo e del cittadino è un diritto di ciascuno, quale che sia il suo punto di partenza socio-culturale, e che il sistema di istruzione si deve attrezzare/rivoluzionare per rispondere a questa necessità/domanda, senza passare necessariamente dal liceo. Perché non dall’Istruzione professionale? Dopo tutto, non è necessario conoscere il greco per leggere Euripide. Al contrario, sembra dire: la struttura dell’offerta è questa e non si cambia, siete liberi di accedervi o di allontanarvi. Libertà che nessuno può concedere, se la stanno già prendendo. Dietro questo rifiuto di cambiare, sta una metafisica occulta, che viene da lontano: l’idea che non è la società, nella pluralità delle sue articolazioni, a definire l’asse culturale e formativo - visto che la società, le famiglie, la politica sono i committenti effettivi - ma è la scuola stessa, cioè lo Stato-amministrazione, che definisce l’asse antropologico-educativo, cui la società, le famiglie, gli alunni si debbono attenere. È l’idea della “scuola-santuario” della verità, del sapere, del logos, che viene dalla Ratio studiorum e che i giacobini hanno decapitato della testa religiosa, mantenendo tuttavia l’idea della sacralità della scuola laico-repubblicana. Il sociologo francese F. Dubet ha recentemente tematizzato questa controintuitiva filiazione. Non stupisce la convergenza di settori minoritari del mondo cattolico con questa idea laico-gentiliana della “scuola-tempio”, purché, si intende, “il tempio” resti sotto il controllo ideologico delle vestali a ciò deputate. Vestali, ahimè, di un lucignolo spento. Né la Mastrocola sembra minimamente interrogarsi sul modello alienante di organizzazione-trasmissione taylorista del sapere, organizzato in discipline, in materie, in ore e anni di classe, in cui si entra e si sta per rigorosa corrispondenza biunivoca tra classe di età e classe scolastica. Anche nell’ipotesi che la formazione dell’uomo e del cittadino si dovesse praticare secondo il suo modello, mettendo nel conto di sottoprodurre un’élite di uomini ben formati e una sottoclasse di uomini faber, è evidente che la mediazione della didattica organizzata, come essa è oggi, rende impossibile questa missione elitarista. Rispetto agli anni sessanta, i licei classici sono scesi al 12 percento, gli esami di maturità sono diventati molto più facili, si può conseguire il diploma con una conoscenza superficiale del latino e del greco e, contemporaneamente, sono aumentate le iscrizioni ai licei leggeri - ossimoro vincente! - mentre gli istituti tecnici e professionali sono stati liceizzati. Insomma: il passaggio alla scuola di massa ha significato liceo per tutti, ma di qualità scadente. Questo sistema sottoproduce insegnanti frustrati e ragazzi ignoranti, perciò sta andando velocemente al collasso. Il contrario dell’egualitarismo non è il ritorno all’élitismo gentiliano, ma la personalizzazione. Il che impone una rivoluzione del sistema (il curricolo, la governance, il personale), non un qualche “riordino”, definito esageratamente riforma. La domanda-chiave è: perché in Italia non si riesce a cambiare, in altri Paesi sì? A 150 anni dall’unità la domanda va girata a ciascuno di noi, alla società civile italiana, alle sue forze motrici, alla politica, tutti quanti attraversati da un’incessante guerra civile. Un Paese che non sa dove andare, che vive alla giornata, che non fa le scelte fondamentali sul modello di stato, di economia, di futuro non è certo in grado di decidere il modello di educazione, istruzione, formazione. E perciò trionfa l’inerzia del blocco storico conservatore. |