SCUOLA
Mastrocola: salviamo Dante (e la libertà) intervista di Federico Ferraù, il Sussidiario 23.3.2011
«So bene che il mio
libro è perfettamente inutile. È il frutto di un pensiero
divergente. Mi basta». Togliamo il disturbo. Saggio sulla
libertà di non studiare, è un caso editoriale. Riscuote
consenso, divide, è - cordialmente - odiato. Paola Mastrocola ha
spalancato le porte delle aule italiane, ha fatto un ritratto
impietoso dei giovani che vi stazionano all’interno - studiano è una
parola che non è il caso di usare, dice la scrittrice, e leggendo si
capisce perché -. Difende strenuamente la scuola delle nozioni
contro quella delle esperienze, l’astrazione contro il sapere
pratico, le conoscenze contro le competenze, le discipline contro
l’«imparare a imparare» e i metodi senza contenuti. E accusa un’idea
falsamente democratica di aver prodotto lo sfacelo che «un pensiero
scolastico genericamente progressista», i guru della valutazione e i
«minotauri occulti» che governano il sistema di istruzione stanno
ora portando a compimento. In questa intervista, Paola Mastrocola
parla della sua rivoluzione: «ma è solo quella della felicità e del
buon senso».
Non mi aspettavo di
suscitare un interesse così forte e questo mi fa piacere,
soprattutto perché per la stragrande maggioranza ho avuto recensioni
davvero ottime. Certo qua e là l’informazione sul libro è stata
superficiale e, me lo lasci dire, molto faziosa. Ho seguito il
dibattito da lontano perché quello che dovevo dire l’ho scritto, e
ora sto a debita distanza. Ma mi dispiace leggere critiche di
persone che dicono apertamente di non aver letto il libro e
impostano l’articolo sul titolo o sul risvolto di copertina o su
“voci” che sentono in giro: mi sembra, come dire?, decisamente poco
serio!
Sì, mi aspettavo di
creare una spaccatura, ma non di vedere ancora in piedi tanti muri
ideologici. Vede, una delle ragioni per cui ho scritto questo libro
è che speravo che molti si liberassero delle incrostazioni
ideologiche che in quarant’anni ci siamo tenuti addosso. Se vogliamo
far qualcosa per la scuola, bisogna avere onestà e libertà di
pensiero. Scopriamo invece che il nostro mondo è tutto barricato
dietro vecchie appartenenze. Vecchie, molto vecchie...
Le pare possibile che
se uno lamenta una carenza di studio e di impegno, se si batte per
dare allo studio e alla cultura umanistica una maggiore
considerazione, venga ancora bollato come reazionario? È possibile
che chi osa avanzare una critica verso la scuola, la società e i
suoi giovani, venga visto come nemico del popolo?
Certo. Le dirò di più:
so bene che la mia voce è minoritaria, perdente in partenza. Ha
vinto un’altra scuola, quella che la mia generazione ha voluto da
quarant’anni. Mi sono permessa di dire: mi sembra un bel fallimento.
Punto. È possibile che lo veda solo io?
Credo che ci sia, anzi,
lo spero! È la scuola del buon senso. Io in fondo nel libro non
parlo d’altro. Certe ideologie hanno completamente annullato il
normale senso delle cose, ad esempio che per imparare si debba
studiare, e che insegnare voglia dire porsi al servizio, sì, ma di
chi vuole imparare. Oggi queste idee sono diventate così
“rivoluzionarie” da apparire ciecamente conservatrici. Ma sono idee
normalissime, spazzate via da un’idea di democrazia tutta basata su
un equivoco.
Che per fare, com’è
giusto, una scuola per tutti, si dovessero abolire le famigerate
“nozioni” e abbassare il livello. Quarant’anni fa avremmo
avuto bisogno di una scuola di massa e invece avevamo una scuola
d’élite. Ora finalmente la scuola è di massa, ma la massa avrebbe
bisogno di una scuola d’élite, io direi una grande scuola
dell’obbligo di livello altissimo per tutti. Invece abbiamo
abbassato l’asticella per permettere a tutti di farcela. Così in
realtà ce la fanno solo i “pochi”, davvero sì i privilegiati, quelli
che hanno famiglie facoltose e conoscenze e relazioni utili!
È così. Io penso che
ognuno abbia delle inclinazioni. Siamo naturalmente inclinati per
qualcosa. In breve: a qualcuno piace stare ore sui libri, a qualcuno
no - o molto meno. Dobbiamo smettere di “torcere” i ragazzi a fare
cose contrarie alla loro natura, dobbiamo lasciarli liberi di
seguire le loro inclinazioni. Sia chiaro, lo studio è sempre stato
per tutti una cosa abbastanza innaturale e costrittiva. E
mi piacerebbe vivere in un Paese che “costringesse” i giovani allo
studio, che dicesse molto chiaramente che cosa vuole per loro, che
cosa è bene che studino, come e quanto. Ma questo il nostro Paese
non lo fa più (ad esempio ha abolito i programmi!): non vuole
indicare più nessuna via e forse non è nemmeno più in grado di
farlo. Dunque: liceo per tutti, senza studiare. Il fatto è che siamo
una società senza più responsabilità e sanzioni. I principi sono
saltati. Se un giovane non studia, che male c’è? Non studiare è
diventato un suo diritto.
La mia è un’idea di
libertà: lasciamo liberi tutti di scegliere il proprio percorso di
studi e la propria vita. Diamo a chi non ha voglia di studiare la
libertà vera di poterlo fare. A chi ne è capace, però, quella di
studiare davvero. È ovvio che io preferirei che tutti studiassero ad
altissimo livello fino a 24 anni, ma non credo verosimilmente che
possiamo obbligare la gente a questo.
Esiste una “felicità
mentale”, un diletto a cui la nostra mente arriva, quando capiamo
un difficile problema di matematica, o una grande poesia di
Michelangelo. Per arrivare fin lì però occorre aver accettato anni
di fatica e di lavoro. Molto spesso invece gli otto anni
dell’obbligo sono un inganno che rifiliamo ai nostri giovani, perché
si tratta di una scuola facile, divertente, dalla quale poi escono
ragazzi che non sanno capire quel che leggono e esprimere quel che
pensano. Dipende tutto, ripeto, da quel che vogliamo per i nostri
ragazzi. Se li vogliamo capaci di astrazione, di contemplazione, di
riflessione, di analisi, allora dobbiamo fare un’altra scuola: ma a
partire dalla prima elementare!
Arrivati alla fine di
un obbligo scolastico fatto come si deve, ognuno dovrebbe scegliere
il proprio percorso di vita. Qui occorre semplificare, perché
andrebbe aperto, com’è ovvio, tutto il capitolo dell’educazione
familiare. Ma torniamo alla “felicità”: se un ragazzo si sente
felice ad intagliare il legno, secondo me dovrebbe fare quello, non
altro. Non credo che sia un bene obbligare i ragazzi a fare a tutti
i costi il liceo, ma gran parte delle famiglie oggi mandano i figli
al liceo: non perché i figli abbiano un’inclinazione per quel tipo
di studi, ma perché la famiglia vuole affermare un suo
personale prestigio sociale. Non si rendono conto di condannarli ad
uno stato di frustrazione e di infelicità, e in molti casi anche ad
una futura disoccupazione.
Verso una formazione
pragmatica, tecnica, che risponda immediatamente alle esigenze del
mondo del lavoro. Questo fa l’Europa, fa il mondo occidentale in
generale, e noi ci stiamo adeguando a tale modello. Io mi limito a
dire: attenzione, perché facendo fuori la cultura umanistica, o
comunque le materie meno immediatamente “utili”, facciamo il nostro
danno. Se snaturiamo la filosofia, la matematica, la letteratura ci
precludiamo quel livello alto, cognitivo, che costituisce l’essenza
di un sapere astratto, disinteressato. Anche gli Stati Uniti si sono
accorti che il problem solving non è tutto e fanno studiare
letteratura ai manager.
Una società che
credesse un po’ di più nei valori più astratti, mentali (anche
spirituali) e meno in quelli piattamente utilitaristici. Mi
basterebbe una società che credesse ancora nell’“utilità” di leggere
i grandi libri del passato (Torquato Tasso, per dire un autore
lontano e apparentemente inattuale e inutile...).
L’epica, la poesia, la
grande narrativa non possono non piacere, e infatti in classe
piacciono moltissimo. Le dirò di più: dopo una lezione sui grandi
autori, esco sempre con la convinzione di aver fatto centro, mi
dico: “bene, ce l’ho fatta, gli è piaciuto”. Ma qual è il punto? Che
poi a casa non c’è lo studio. Non c’è alcun deposito, alcun lavoro.
Resta il nulla, o il quasi-nulla. È evidente che, se manca un minimo
di senso del dovere, vince la vita fuori, i divertimenti, i social
network, la televisione, lo sport, gli amici: tutte cose molto più
attraenti, e che soprattutto non chiedono fatica...
Che attualmente c’è
un’unione perversa tra una scuola che ha smesso di esigere una
serietà e un impegno culturale, per essere ormai un luogo di
socializzazione, di intrattenimento, e una società fondata sul
principio del piacere, narcisistica, benestante, che cerca l’agio e
la via più breve. Queste due cose si sono perfettamente sposate e il
risultato è quello che vediamo. Gli studenti “sono” le loro
famiglie.
In qualche modo, sì. Mi
chiedo spesso che cos’abbia fatto la mia generazione, se questo sia
tutto quello che poteva dare. Mi chiedo perché la scuola in
particolare, che doveva essere il luogo che teneva duro sulla
cultura e sull’impegno abbia ceduto così le armi. Io credo sia anche
dovuto a un’idea egualitarista, falsamente egualitarista.
Ma perché è
estremamente difficile misurare le conoscenze e le capacità di
comprensione di una materia umanistica. Non chiedo tanto, vorrei
solo che i tecnocrati facessero qualche eccezione ai loro test. Non
è possibile valutare e certificare un apprendimento esperienziale su
cose come la Divina Commedia. O facciamo un test, per la
verità molto svilente, sulla grammatica, oppure, per favore,
lasciamo fuori dalla nostra ansia di misurazione oggettiva il senso
profondo delle grandi opere e dei grandi autori. Accettiamo che
qualcosa sfugga. Capisco che cadano le cattedre e le carriere dei
pedagogisti, ma non ostiniamoci a quantificare il non misurabile.
Misurare va bene se
parliamo di problem solving o di materie
tecnico-scientifiche, ma non può riguardare la letteratura, Leopardi
e Pavese non sono “verificabili”. O meglio, dobbiamo accettare che
l’“utilità” futura dello studio umanistico non sia verificabile
dentro la scuola. La mia, non lo nascondo, è una specie di fede
laica. Questa fede una volta c’era, era la stessa fede che induceva
un ragioniere a studiare a memoria la Divina Commedia. Mio,
padre, che era ragioniere, lo faceva, e nessuno verificava che cosa
e come gli sarebbe poi servito nel fare ragioneria. Si credeva che i
giovani, sapendo la Divina Commedia, sarebbero diventati
ragionieri migliori! Migliori come uomini, e quindi di certo anche
come ragionieri. Si trattava di una “fede”, appunto!
Penso che l’autonomia
non possa produrre alcuna effettiva libertà. Purtroppo c’è
un’egemonia culturale, scolastica, ormai definita, imposta dai
ministeri, dall’Europa. La realtà è questa e di fronte ad essa
l’autonomia è serenamente impotente. So bene che il mio libro, in
questo senso, è perfettamente inutile. È il frutto di un pensiero
divergente. Mi basta. Un pensiero che deve continuare ad esserci,
spero solo di non rimanere sola. Mi piacerebbe che lo Stato
riservasse un binario speciale per treni diversi: il binario
parallelo di una scuola statale alternativa. So che è un sogno, ma
me lo faccia dire lo stesso.
Una delle accuse che si
fanno non al mio libro ma alla mia persona, è che io non ami il mio
mestiere. Non è così: il nostro mestiere è bellissimo, si tratta di
“passare” ai giovani i libri, le poesie, il pensiero dei grandi...
In fondo penso che possiamo essere felici, soddisfatti anche al di
là dei risultati effettivi dei nostri allievi. Quello che ci fa
entrare in classe ogni giorno non è il fatto di ricevere una
risposta immediata, ma il fatto che magari i giovani, nella loro
vita futura, prenderanno in mano un libro e lo sapranno leggere.
No. Torniamo all’idea
di fede. Bisogna avere una grande fede in quello che uno fa; e una
fede, mi pare, non ha bisogno di misurazioni oggettive. Giovani e formati alle nuove tecnologie e pedagogie, ma andiamo molto d’accordo: non credono poi così tanto nei vuoti tecnicismi, hanno un’idea alta di cultura, e pensano che sia quella che devono trasmettere. |