Istruzione e “formazione storico-economico-sociale”: la terza
rivoluzione industriale
di di Franco De Anna, da
ScuolaOggi 23.8.2010
Come si fa a resistere alla sfida
dell’amico Tiriticco quando invita ad “approfondire e chiarire”
e soprattutto quando allude ad un mio “pessimismo”, a proposito del
mio ultimo articolo pubblicato su ScuolaOggi (perigliosamente
pencolante tra l’accordo FIAT e le suggestioni della società della
conoscenza)?
Difficile farlo nello spazio concesso a questi contributi on line,
dal quale debordo costantemente, pur con la comprensione (credo) dei
responsabili editoriali. Magari provo a puntate…
Ma alcuni chiarimenti li devo anche ai molti che mi hanno inviato
privatamente commenti (tra tutti ringrazio in particolare Luciano
Corradini).
1.
Intanto rassicuro alcuni critici: non ho alcun cedimento a
concezioni che leghino “funzionalmente” livelli di istruzione e “uso
concreto” delle competenze così generate nello sviluppo economico e
produttivo. Sicchè credo non si possa inserirmi nella schiera di
coloro che solo in tale funzionalità rintraccino il valore della
formazione e dell’istruzione.
Nella nostra tradizione culturale (il termine è impreciso, ma me lo
si passi), il sapere, la conoscenza rappresentano “valori
incondizionati”, valori in sé. Non c’è bisogno di aggiungere altro
predicato.
Questo valore ha “plasmato” di sé tutti i sistemi di istruzione
organizzati ed istituzionalizzati, come strumenti “sociali” per
accedere a tale valore.
Viene da lontano: dal “proto illuminismo” dell’Atene del V secolo, e
da lì ha ispirato il “mito pedagogico” (un “mito colto” per dirla
con Durkheim) che percorre tutto il pensiero pedagogico
dell’Occidente. Dal Socrate che si ostina a dimostrare
(dimostrazione fallace, ma che lascia un segno millenario. Per ciò
abilito il termine “mito”) che anche lo schiavo “sa” le regole del
quadrato (v. Fedone) a Comenius che sostiene che si possa/debba
“insegnare tutto a tutti”. E’ un “mito regolativo” che percorre
tutto il pensiero pedagogico dell’Occidente e che ha una impronta
costitutivamente “democratica”. Il sapere, la conoscenza sono la
“natura” (la seconda natura) dell’uomo. Nessuno escluso.
La potenza del mito è dimostrata dal fatto che ha comunque travolto
le resistenze che storicamente gli si sono opposte (le ipotesi
reazionarie che per il popolo l’istruzione fosse “pericolosa”, da
chiunque “agite”.. )
Chi lavora nella scuola, poco o tanto che rifletta, è segnato da
tale valore.
Il comportamento concreto delle persone almeno nell’arco di tre
rivoluzioni industriali, ha adottato tale valore: si investe (si
rinuncia a qualche cosa oggi per il vantaggio di domani) nella
istruzione dei figli (o lo si vorrebbe) perché è “comunque” un
valore.
2.
Contemporaneamente lungo tre rivoluzioni industriali, il modello di
Formazione Economico Sociale proprio dell’Occidente (figlio del
protoilluminismo del V secolo ateniese) ha inglobato il sapere
(scienza, tecnologia, dominio sulla natura e sui processi
“artefatti”) nella produzione stessa della ricchezza. In una
progressione che ha visto utilizzare le conoscenze e invenzioni dei
singoli (la prima rivoluzione industriale), poi organizzare
l’innovazione tecnologica attraverso i laboratori (l’epoca degli
ingegneri della seconda) fino a capovolgere i rapporti tra sapere e
produzione nella terza.
Perciò, nello sviluppo della formazione economico sociale, accanto
alla conoscenza come “valore incondizionato” si è affermato quello
“condizionato”: il sapere come “organico” e necessario allo sviluppo
economico stesso.
3.
Le persone hanno via via acquisito, verso l’istruzione, un doppio
sguardo: far studiare i figli, con i sacrifici che comporta è un
valore in sé, e contemporaneamente una condizione per far fruttare
in futuro (reddito, lavoro più soddisfacente, posizione sociale) il
sacrificio dell’oggi.
Una “scommessa sociale” la cui risposta positiva ha costituito una
“ragione sociale” di convivenza, condivisione di valori, unità di
speranze che è facilmente rintracciabile nella cultura di massa del
nostro Paese per esempio, almeno fino a tutti gli anni ’70. Una
scommessa sociale, che era comunque una “scommessa”, ma che aveva
buone possibilità di concludersi vantaggiosamente per tutti (si
tratta di uno degli elementi di “funzionalità” tra sistemi di
istruzione della seconda rivoluzione industriale nella Formazione
sociale ed economica che le è propria. Si veda oltre).
La “domanda di massa” di scuola (in Italia tra gli anni ’60 e ’70)
viene da questo doppio sguardo, esattamente come, quasi
specularmene, l’offerta di massa di scuola viene dal “mito
regolativo” della pedagogia democratica, unito alla consapevolezza
del legame tra sviluppo delle conoscenze e sviluppo generale del
Paese (queste suggestioni da anni ’70).
La preoccupazione di fondo, in questo momento, (almeno quella mia
che ha ispirato l’articolo in questione) è quella generata dalla
possibile separazione tra i due sguardi: se la concezione
dell’istruzione come “bene in sé” e quella dell’istruzione come
“bene condizionato” alla sua produttività sociale, economica, al suo
“riconoscimento” sociale, si separano, lo strabismo che si può
generare metterà in discussione prima di tutto la “verità” del primo
sguardo, non fosse altro che per la “durezza della vita e della
storia” che premono sul secondo.
E ciò vale soprattutto per i ceti popolari, per coloro ai quali il
“sacrificio” dello studio dei figli è più oneroso. Taglio delle
speranze e del futuro, prima ancora che taglio dei redditi.
4.
Io non ho dubbio alcuno che la terza rivoluzione industriale,
capovolgendo il rapporto tra conoscenza e produzione rispetto alla
seconda, reclami “strutturalmente” la necessità di “talenti umani”
evoluti e di grande qualità. Incorporando scienza e tecnologia nella
produzione, da un lato ingloba totalmente nel “capitale” (fino al
centesimo di secondo) il lavoro vivo che residua rispetto
all’automazione dei processi, (ed è il caso assunto come
paradigmatico, ma non universale, anzi, della FIAT nel mio
precedente articolo); dall’altro necessita di quei talenti evoluti
nelle fasi di progettazione, controllo dei processi, gestione degli
esiti e dei mercati.
Da qui le “giaculatorie” (giaculatorie, scongiuri, esorcismi… siamo
sempre sul piano del mito…) sulla “società della conoscenza” sulle
“competenze” ecc…
Il problema si pone per il fatto che, necessitando di talenti umani
evoluti, il sistema della produzione della terza rivoluzione
industriale, è in grado in realtà di “valorizzarne” pochi.
L’introduzione nel circuito del valore è duramente selettiva. E’
necessario suscitare grandi talenti, ma la “funzionalità” positiva è
per pochi. (straordinaria la metafora dell’ascensore sociale. Chi la
usa dimenticache l’ascensore è sempre un contenitore per pochi…)
Per accennare al volo (di più non si può qui) la differenza tra
seconda e terza rivoluzione industriale si pensi alla famosa frase
di Ford che voleva dare a “tutti gli americani” una automobile e del
colore che preferivano “purchè fosse nero”.
Ecco, con le sue tragedie e sfruttamenti (non mancano mai), la
seconda rivoluzione industriale era inglobante, di massa,
standardizzata; faceva della “eguaglianza” dei consumatori la sua
fonte di successo. La terza, al contrario, stratifica, lucra sui
differenziali, segmenta. La seconda guarda allo “sviluppo” della
funzione, la terza guarda alla sua “derivata” ( i docenti di
matematica spero capiranno la metafora..)
Da qui le giaculatorie (scongiuri, esortazioni, esorcismi: una
apoteosi di pensiero magico) sul merito e la meritocrazia.
Chi discetta di merito e meritocrazia è come l’uomo che esclami “il
re è nudo!” guardandosi allo specchio. Possiamo rispondere con
grandi analisi e distinguo. Ma la vera risposta è “decostruire” l’apoditticità
e l’assertività di affermazioni “banali” (chi mai ha sostenuto il
contrario del merito? Vien da dire unisciti a noi, “compagno”, che
siamo vissuti con l’imperativo di “saperne sempre una di più del
padrone…”) rivelandone la mistificazione. E con un poco di ironia e
umorismo come si conviene a chi “guarda l’uomo che guarda” (bisociazione:
la fonte dell’umorismo).
Potremmo invitare Abravanel a combattere con noi la battaglia contro
“l’eredità” (aboliamola). Oppure promuoviamo una legge di iniziativa
popolare per la quale si entra in possesso dell’eredità famigliare
solo dopo avere compiuto i 55 anni di età, in modo da dimostrare
prima ciò che si vale…Scommetto che scopriremmo subito che ha da
perdere “solo le proprie catene..”.
5.
Ciò che si delinea dunque è la contraddizione acclamata tra la
“vocazione” universalista della conoscenza, del sapere,
dell’istruzione per tutti che ne è lo strumento “moderno”, e la
“valorizzazione sociale” reale di una istruzione generalizzata. Tale
valorizzazione si fa sempre più selettiva e “condizionata” dalle
caratteristiche del processo di produzione del valore nella terza
rivoluzione industriale (mi si perdonerà lo schematismo necessario
in questa sede).
In tale contraddizione da un lato residuano le frustrazioni e
delusioni delle speranze di emancipazione sociale, dall’altro
decantano i valori del sapere, della cultura, della conoscenza, come
“inutili” e non significanti. Socrate va in soffitta. O meglio
“torna” nella biblioteca di pochi.
Se è così non ci si stupisca della “rappresentazione” enfatica della
“società della conoscenza” e della necessità di avere “grandi
talenti”: è un collaudato costrutto ”ideologico” predicare come
“universale” un valore detenuto come “particolare”.
Ciò che in realtà viene posto in discussione e in sofferenza è la
“scuola di massa”, la “scuola per tutti” e non solo, come ho già
ricordato, il “tutti a scuola” (inutile ricordare la differenza tra
le due espressioni).
Quando un Ministro come Sacconi, o un “esperto” come Cazzola (la
CGIL ha tanti figli e inevitabilmente qualche figliastro) rilasciano
interviste in cui affermano che ci sarebbero oltre 140 mila domande
di lavoro che non trovano offerta corrispondente, ho un moto di
stizza, prima ancora che analizzarne la composizione: sapranno, i
destinatari di tale “pensosa” osservazione, fare proporzioni di
“quantità” tra ciò che si denuncia come contraddizione rispetto alla
disoccupazione di massa giovanile e la sua effettiva consistenza (si
applichi un moltiplicatore almeno di 10 per calcolare quanta offerta
reale di lavoro si confronti con la domanda)? Siamo enormemente al
di sotto di qualsiasi percentuale si assuma come dato “frizionale”
(fisiologico) di non corrispondenza tra domanda e offerta sul
mercato del lavoro… Ma l’argomento viene proposto a rinforzo
dell’ipotesi di “correggere” l’obbligo “scolastico” (dico
“scolastico” e non “di istruzione” volutamente). E non ho trovato
molte risposte in chi si oppone (o lo vorrebbe). Chi fa ideologia?
6.
La contraddizione tra “universalismo” declinato nella ipotesi
storica dell’istruzione per tutti (ciò che validerebbe l’ipotesi
della “società della conoscenza”) e la selettività della
valorizzazione sociale della conoscenza che la mortifica da
“patrimonio” di tutti, attraverso l’istruzione, a “valore” solo per
alcuni (attraverso la produzione di valore), è trascinata dagli
effetti di segmentazione e polarizzazione della stratificazione
sociale connessa alla “terza rivoluzione industriale” (comprendo per
brevità in questa “etichetta” tutte le – non equivalenti –
espressioni relative alla globalizzazzione, alla unificazione
mondiale del mercato, allo sviluppo della società delle
comunicazione e informazioni ecc…).
Nell’articolo precedente indicavo che: 1) si registrano
segmentazioni e polarizzazioni nella stratificazione sociale che
sono “trascinate” anche se non direttamente e casualmente e
organicamente connesse con l’innovazione tecnologia trasferita nei
processi produttivi: la FIAT è solo un paradigma, non una realtà
universale. Tanta manifattura è organizzata ancora in modo “da
seconda rivoluzione industriale” (citavo la “manovia” caratteristica
di tanta produzione di piccola e media impresa) 2) i caratteri della
produzione di valore in questa fase storica funzionalizzano e
radicalizzano tale polarizzazione con forza pari e opposta a quella
che, nella seconda rivoluzione industriale, tendeva alla
omogenizzazione e standardizzazione. Il futuro non disegna una
ipotesi di eguaglianza, neppure tra consumatori, come fu
nell’ipotesi fordista. Al contrario 3) indicatori come il livello di
istruzione, le competenze professionali agite, le conoscenze
possedute, la responsabilità e l’autonomia esercitate nel lavoro, si
distribuiscono in modo parcellizzato e separato lungo la
stratificazione sociale connessa alle posizioni di lavoro e al
reddito. In quell’articolo proponevo quattro stratificazioni (si
potrebbe arrivare a circa 12 in realtà)
Per esempio, a parte il vertice di comando della grande impresa,
tali indicatori si concentrano positivamente (istruzione +
competenze + responsabilità +autonomia + reddito), solo nello strato
superiore (quadri e quadri intermedi) della stratificazione che
interessa assai meno di un quarto della occupazione dipendente.
Negli strati successivi si hanno diverse combinazioni di indicatori.
Per esempio un artigiano ha in genere livelli di istruzione medio
bassi, competenze specifiche accertate e spesso certificate, ampia
autonomia e responsabilità di lavoro (può decidere se accettare una
commessa o il suo orario di lavoro) e reddito medio alto. Un docente
ha grande autonomia e responsabilità nel suo lavoro, alto grado di
istruzione e (si suppone) grandi competenze, ma basso reddito e
spesso precarietà nel rapporto di lavoro.
Così, alla base della stratificazione, possiamo incontrare, in
lavori di scarsa o nulla autonomia e responsabilità, sia persone di
livello di istruzione appena elementare (magari immigrati) come
anche giovani ad alta scolarità e permanente disoccupazione (le
cifre farebbero inorridire Sacconi e Cazzola se ne fossero capaci)
Un operaio che sta in una “manovia” del settore calzaturiero o
dell’abbigliamento non è “misurato” al centesimo di secondo
dall’impianto automatizzato che lo incorpora (spinge invece il suo
pezzo lavorato a mano verso il compagno vicino perché completi la
lavorazione). Dunque ha margini di autonomia più ampi (quanto si
chiacchiera in una manovia, specie nei piccoli centri, dove tutti si
conoscono) ma ha qualificazione di competenze e livelli di
istruzione prossimi a quelli di chi viene controllato dall’automa.
Sulle stratificazioni inferiori opera poi, come un “destino”, il
carattere “just in time” e “on demand” del modello post moderno di
produzione. La cosiddetta flessibilità. Esisti se servi in quel
momento.
E non si pensi solo alle grandi e drammatiche variazioni della
“domanda internazionale” che possono costringere ad accordi
“prendere o lasciare”. Una commessa della grande distribuzione deve
dare una parte del proprio tempo di lavoro in “disponibilità” in
relazione alla densità di clienti in “quel” momento della giornata.
Taccio di lavori come la raccolta agricola, il confezionamento di
alimentari, le costruzioni (pensate alle costruzioni!! Con tutte le
chiacchiere sulla tecnologia, costruiamo case, almeno nella medietà
dei casi, con competenze e tecnologie di molti decenni fa)
Ma ciò vale non solo per le qualifiche inferiori. Un quadro
intermedio che del possesso di alcune competenze faceva la sua
“forza contrattuale” nel rapporto di lavoro, per esempio in una
banca, può trovarsi in concorrenza con un ”applicativo” software che
automatizza procedure contabili, e finanche scelte di investimento,
calcolando al centesimo di secondo le probabilità di rischio e di
guadagno, attraverso una “funzione” incorporata nell’applicativo
stesso. (la finanziarizzazione dell’economia trova in tali strumenti
la sua base operativa).
Un sistemista software, nel giro di pochi anni può trovarsi
“obsoleto” rispetto alle competenze che lo avevano collocato al
vertice. Così un medico. (dei docenti taccio…)
Ma, insisto, ciò che conta non è tanto tale “instabilità”
(nell’ideologia: flessibilità) quanto il fatto che il circuito di
produzione del valore tenda ad accentuare il meccanismo “usa e
getta” e quindi la polarizzazione, la intercomunicazione tra i
diversi livelli della stratificazione sociale, inevitabilmente verso
il basso..
La “predicazione” sulle competenze e sulla società della conoscenza
residua una realtà di “selezione” permanente.
Bene, tutto ciò riguarda più dei tre quarti dell’occupazione del
nostro Paese, mentre l’istruzione si propone come “valore
universale” tentando affannosamente di mantenere la sua ispirazione,
non dico nei documenti della Commissione UE, ma almeno nel
proto-illuminismo del V secolo ateniese.
7.
Ma tutto ciò non è “destino”. Dove si affrontano le contraddizioni
così sommariamente descritte, dove diventano “conflitto”,
contrattazione, nuove regole, nuovi equilibri, nuovi “compromessi”?
C’è ovviamente il luogo del sindacato, della politica, della società
civile…
Ma nella scuola? Vado per slogan. Se ne potrà parlare in altre
pagine.
Occorre recuperare e “densificare” il valore del sapere e
dell’istruzione come “bene incondizionato” che sta alla base di una
comunità di donne e di uomini “eguali” e con eguali diritti.
Non ci sono “certezze funzionali”: l’alfabetizazazione del nostro
Paese ha accompagnato la trasformazione di contadini in operai della
grande industria manifatturiera della seconda rivoluzione
industriale. L’istruzione ha accompagnato il processo, ne ha
sagomato alcune caratteristiche, ma non l’ha determinato. Eppure gli
operai immigrati della FIAT negli anni ’60 hanno fatto l’autunno
caldo e la loro lotta sociale ha comunque trasformato questo paese.
Ce ne è abbastanza per sostenere che, comunque, l’istruzione sia un
“valore”.
Ma per affrontare il compito occorre sapere che tutto ciò che è
stato detto sopra, pur nella sua sommarietà, destabilizza innanzi
tutto “l’enciclopedia” sulla quale si è strutturato il sistema
dell’istruzione.
E destabilizza, innanzi tutto, le gerarchie interne a tale
enciclopedia, e in connessione le gerarchie esterne (sociali)
costruite su quelle interne.
Le chiacchiere sulla equivalenza degli indirizzi della secondaria si
sprecano…
Una proposta: dedichiamo una spietata critica culturale all’assetto
del liceo classico, invece di lasciarlo sullo sfondo, proprio perché
nell’immaginario sociale rappresenta ancora il top della cultura
scolastica. Ne ricaveremmo dei fall out interessanti rispetto
all’ordinamento complessivo. (Ricordo che Derrida convocò gli “stati
generali” della filosofia, quando si prospettò di abolirne
l’insegnamento nelle scuole francesi. Fu un buon esercizio di
“cultura generale”).
Puntiamo sul “capire” piuttosto che sul “sapere” (so già che mi si
dirà a più voci che le due cose vanno insieme… perdonatemi e cercate
di metabolizzare la metafora)
Puntiamo lo sguardo sull’ermeneutica, piuttosto che sulla
epistemologia e facciamo giustizia il prima possibile della
particolare enciclopedia del sapere che è costituita dalla
enciclopedia delle classi di concorso e delle “discipline
scolastiche” ( che spesso esistono solo nei programmi di
insegnamento e non in quelli della ricerca, della “produzione di
sapere”).
Puntiamo all’obbligo e cioè al set di conoscenze, saperi,
competenze, abilità, saper fare, saper distinguere, scegliere, saper
“agire” (non il “fare” ma l’agire come direbbe la Arendt) in
padronanza di donne e uomini eguali.
Qui sia l’ordinamento.
Sciogliamo il paradigma stesso dell’ordinamento che presiede alla
“sistematica” della cultura e del sapere trasferibili in valore
sociale, che convalida anche il privilegio di chi può garantirsi una
istruzione superiore ( a spese della ricchezza sociale).
Tanto più che è tramontato il tempo in cui l’esibizione della
credenziale del titolo di studio superiore era garanzia di
collocazione sociale.
”L’ordinamento” sia radicato al livello dell’obbligo esteso a tutti
i cittadini.
Più oltre (come da Costituzione) sia il campo, necessario, della
flessibilità. La flessibilità di chi sceglie, non di chi è scelto.