La scuola e Sartori.

L'intervento. L'analisi che il professore avanza sul Corriere della Sera del 10 novembre a proposito delle "malattie della scuola" è sbagliata, fuorviante e, specialmente, pericolosa, perché di fatto evoca una scuola improntata a criteri di censo, per dirla in breve, una scuola di classe.

Gianfranco Pagliarulo da Aprile On Line.info, 11.11.2008

Il professor Giovanni Sartori è, oltre che un teorico della democrazia liberale, anche una persona intelligente. Di conseguenza le sue considerazioni vanno prese sul serio sia quando scrive cose condivisibili, sia quando scrive cose non condivisibili.

L'analisi che avanza sul Corriere della Sera del 10 novembre a proposito delle "malattie della scuola" è sbagliata, fuorviante e, specialmente, pericolosa, perché di fatto evoca una scuola improntata a criteri di censo, per dirla in breve, una scuola di classe. Essendo Sartori intelligente, la cosa è ancor più preoccupante.

Sartori indica tre "fattori distorsivi specifici del cattivo riformismo della scuola".

"Il primo è stato, appunto, il sessantottismo, che è stato esiziale perché ha predicato l'ignoranza del passato". Da dove il professor Sartori abbia assunto tale convinzione, egli non spiega. A me, che sono esattamente di quella generazione, pare esattamente il contrario. Chi praticava l'ignoranza del passato era proprio la scuola che allora criticavamo. Ad essere più esatti, più il passato si avvicinava, meno esso veniva studiato. Il fascismo e la Repubblica, per esempio, erano affrontati frettolosamente quando non erano del tutto omessi e, con loro, l'insieme della cultura contemporanea. Il movimento di quegli anni, al contrario di ciò che afferma il professor Sartori, mise in discussione proprio quelle reticenze e quei silenzi che, sia chiaro, non sono ancora pienamente vinti. Basti pensare al colonialismo fascista ed al falso stereotipo degli "italiani brava gente", che è stato coltivato per mezzo secolo. Solo da poco, grazie ad un manipolo di storici coraggiosi, si sta sollevando la coltre, meglio, il sudario che ha coperto per tanto tempo le nefandezze imperialistiche del fascismo al governo in Italia. Ma assieme, com'è noto, siamo nel pieno di una strutturale rivalutazione di quel periodo. Inoltre fra i tanti temi che la scuola precedente al 68 dimenticava, come sa bene il professor Sartori, c'era la Costituzione. C'è da aggiungere che quel grande movimento contrastò la visione eurocentrica della storia, fino ad allora imperante.

"Il secondo fattore distorsivo - continua Sartori - è stato il progressivismo pedagogico, largamente di ispirazione psicoanalitica". C'è, in questa affermazione, una pericolosissima tentazione autoritaria, comprensibile dal punto di vista generazionale, ma non per questo giustificabile. Sembra che il professor Sartori rimpianga la scuola di Giovanni Gentile, la cui selezione avveniva in base alla trasmissione familiare della cultura, cioè al censo. E' qui, a mio avviso, l'equivoco fondamentale sul concetto di merito e demerito. E' giusto premiare il merito, ma a parità di condizioni culturali. In sostanza, in primo luogo per la scuola vale il noto principio costituzionale per cui "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana".

Il terzo "fattore distorsivo": "la teoria della società postindustriale come "società dei servizi" fondata sul sapere o, quanto meno, su elevati livelli d'istruzione". "Ma il post-industriale non doveva e non poteva sostituire l'industriale". Da ciò - occhio! - il professor Sartori conclude: "ma perché tutti devono andare all'università? C'è chi proprio non è tagliato per gli studi superiori". Certo. Ma il professor Sartori non può ignorare in quante università più o meno "private" o "parificate" si laureino per modo di dire rampolli delle famiglie benestanti, che pagano rette stratosferiche. Dal ragionamento di Sartori, però, non sembra proprio che si alluda al consistente numero di inetti figli di papà che si conquistano la laurea a forza di rette, ma viceversa che, dovendo rilanciare la parte "industriale" della società post industriale, occorra far tornare in fabbrica un po' di gente. E chi, se non coloro che, provenendo da ceti medi o medio bassi, sono "meno portati" del figlio del notaio a studiare all'università? (A proposito, più tempo passa più mi sfugge quale sia la funzione del notaio nella società moderna, e specialmente a quale titolo e per quali "meriti", su cui Sartori è giustamente sensibile, acquisisca parcelle, remunerazioni e prebende i cui importi sono del tutto inspiegabili). Come mai il professor Sartori non parla mai nel suo pezzo né di università pubblica e privata né di scuola pubblica e privata? Tale omissione è rivelatrice. Per questo il professor Sartori vagheggia una scuola incardinata sull'idea di una rigida selezione di classe.

Sembra in sostanza che Sartori auspichi una "riforma Gelmini" ancora più dura e determinata e che identifichi nel 68 e nel diritto allo studio le cause essenziali delle attuali difficoltà della scuola e dell'università. Non scrive sull'attuale movimento degli studenti, ma dalle sue considerazioni si desume che ne abbia una pessima opinione. E non ci si nasconda dietro limiti, difetti e degenerazioni presenti nella scuola attuale: certo che ci sono e che vanno contrastati. Ma né la "riforma Gelmini", né l'analisi di Sartori servono ad individuare i reali problemi della scuola attuale.

I dati dell'Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico) del settembre 2008 riferiti al 2005 dicono questo: su 34 Paesi, l'Italia è al 27° posto nel rapporto fra totale della spesa pubblica e Pil, cioè è uno dei Paesi con la minore spesa pubblica sul totale del prodotto del Paese stesso; è all'ultimo posto come spesa pubblica dedicata all'istruzione; in Italia la spesa per il personale rispetto al totale della spesa della scuola è nella media, ed è inferiore, per esempio, a quella del Belgio, della Francia, degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, del Messico, del Giappone, e così via. Sempre in base ai dati Ocse, i risultati formativi della scuola pubblica italiana sono abbastanza positivi. Allora, perché questo accanimento? La spiegazione va trovata nel cosiddetto Decreto Brunetta (25 luglio 2008), che prevede un risparmio di otto miliardi di euro nel sistema dell'istruzione. Questo spiega perché il decreto legge di riforma della scuola prevede la riduzione di 87.400 docenti e 44.500 assistenti tecnici amministrativi, la chiusura di 6.800 strutture scolastiche, l'introduzione del maestro unico alle elementari, l'aumento del tetto fino a 35 alunni per classe dal prossimo anno. I colossali tagli peseranno in particolare sui precari. Il ministro Gelmini insiste sul fatto che tali "risparmi" saranno reinvestiti in edilizia scolastica, laboratori, aggiornamento degli insegnanti. Ma nel Decreto Brunetta si afferma che tale "reinvestimento" riguarderà solo il 30% "delle economie" e inizierà solo dal 2010. La realtà è che si tratta di provvedimenti che tendono solo a tagliare i costi, peggiorando la scuola pubblica. Ma se la scuola pubblica peggiora, i figli dei più ricchi andranno a quelle private. Merito? Macché, gentile professor Sartori! Si torna al privilegio come elemento di selezione di alunni e studenti. E per i figli dei migranti? Ecco pronte le "differenziali", al gradino più basso della nuova gerarchia.

Ecco perché, se passasse la "riforma Gelmini" tornerebbe all'ordine del giorno un antico - e giustissimo slogan - che si lanciava proprio nel 68: "Basta con la scuola dei figli di papà; i figli degli operai all'università!".