Sicurezza

Le valutazioni del prof. Smuraglia

sullo schema di Testo Unico su Salute e Sicurezza.

dal sito della CGIL Scuola, 30/12/2004 

 

Come si ricorderà il 18 novembre u.s. il Consiglio dei Ministri ha dato via libera allo schema di decreto legislativo per un Testo Unico sulla sicurezza e igiene del lavoro. Il giudizio della CGIL e della FLC Cgil - come abbiamo riportato nelle precedenti note - è estremamente negativo perché avvia un pericoloso e inaccettabile processo di deregulation in materia di igiene e sicurezza nei posti di lavoro che mette in discussioni le attuali tutele dei lavoratori e deresponsabilizza, con la depenalizzazione delle sanzioni, i datori di lavoro.

Lo schema di decreto seguirà il suo iter: negoziato con le parti sociali, Conferenza Stato Regioni, Parlamento per essere poi varato in via definitiva da un secondo Consiglio dei Ministri in primavera.

Come annunciato CGIL-CISL-UIL intendono avviare nei prossimi giorni un ampio dibattito in tutti i posti di lavoro per contrastare la politica del Governo. A tal fine riteniamo utile pubblicare il contributo del prof. Carlo Smuraglia, uno dei massimi esperti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sullo schema di Testo Unico del Governo.

Roma, 30 dicembre 2004

 

 

Il Testo

Prime valutazioni in relazione allo schema di decreto legislativo per un Testo Unico sulla sicurezza e igiene del lavoro, approvato dal Consiglio dei Ministri il 18 novembre 2004 ai sensi dell’articolo 3 della legge 29.7.2003 n. 229

Da anni si sottolinea da varie parti l’esigenza di un Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, che raccolga le norme vigenti e le coordini, nel contempo apportando alcune innovazioni necessarie per rafforzare e rendere più efficace il sistema di prevenzione.

Il primo tentativo risale al 1978 con la legge di riforma sanitaria; poi ci furono le proposte della Commissione Lama e dopo ancora, nel corso della tredicesima legislatura, la presentazione, la discussione e l’approvazione nella Commissione Lavoro del Senato di un Testo molto ampio, peraltro mai approdato all’Aula.

Adesso l’iniziativa è stata assunta dal Governo con la predisposizione di uno schema di decreto legislativo in virtù della delega conferita dal Parlamento con l’art. 3 della legge 229/2003.

Il primo quesito che si pone è se questa iniziativa, in sé commendevole, perché corrispondente ad una esigenza più volte - come si è detto – manifestata, sia corrispondente alle attese e alle effettive necessità.

Va ricordato, in premessa, che l’art. 24 della legge 833/1978, che peraltro non ebbe alcun seguito, fissava precisi criteri per la delega, spesso notevolmente avanzati, fra i quali particolarmente significativo quello contenuto al punto 8, che faceva esplicito riferimento all’obbligo del datore di lavoro di programmare il processo produttivo in modo da farlo risultare rispondente alle esigenze della sicurezza del lavoro. Compariva così, per la prima volta, un riferimento alla organizzazione del lavoro come fattore primario di rischio e di responsabilità. Da notare anche che alle norme delegate si affidava il compito di determinare le sanzioni, da graduare in relazione alla gravità delle violazioni e comportanti comunque, nei casi più gravi, l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino a 10 milioni.

Anche le proposte allegate alla relazione Lama non ebbero alcun seguito.

Più ampia e complessa fu, invece, la vicenda delle iniziative parlamentari della tredicesima legislatura, che furono accompagnate da numerose audizioni e da assidui contatti con operatori e studiosi, recepirono molte modifiche rispetto al testo originario, ottennero l’approvazione della Commissione lavoro del Senato e poi si fermarono lì.

Peraltro, l’esigenza di provvedere a un coordinamento delle norme vigenti in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, che desse certezza e chiarezza delle regole, non riducendosi peraltro al livello di un’opera di mera compilazione, diveniva sempre più sentita anche a seguito delle numerose direttive comunitarie, destinate – prima o poi – ad essere recepite anche dal nostro Paese.

Comunque, anche al fine di introdurre significative innovazioni che potenziassero il sistema della prevenzione, appariva necessario tener conto delle esperienze concrete e misurarsi anche con la scarsa effettività di un sistema, peraltro ormai molto completo.

Un criterio fondamentale poteva e doveva essere fornito dal rapporto conclusivo (novembre 2003) del monitoraggio e controllo dell’applicazione del decreto legislativo 626/94, effettuato dal coordinamento delle Regioni e Province autonome.

In estrema sintesi, quel rapporto –che è giusto considerare di grande rilevanza– concludeva nel senso che "il quadro descritto non mette in discussione la validità della norma e del percorso metodologico e culturale che le è sotteso, ma indica chiaramente che è necessario e urgente agire per favorire il raggiungimento di una sua coerente ed efficace applicazione in tutte le aziende italiane". Le carenze applicative rivelate dal rapporto coincidevano in gran parte con quanto si andava rilevando da tempo: si notava una "discreta attuazione delle regole, ma spesso più burocratica e formale che sostanziale, si sottolineava l’incompleta attuazione dei princìpi partecipativi, si rilevava una maggiore criticità nelle piccole aziende, si indicavano infine i maggiori punti deboli per l’attuazione del sistema, nella formazione, nella programmazione degli interventi, nelle procedure di sicurezza, nella difficoltà a fare entrare i programmi e le misure di sicurezza in un vero sistema complessivo di gestione delle aziende. Infine, si sottolineava la necessità di una seria programmazione degli interventi di vigilanza (soprattutto della cosiddetta sorveglianza prevenzionale), evidenziando che con ciò "non si intende capovolgere i tradizionali e corretti criteri di programmazione delle attività dei servizi di prevenzione di vigilanza negli ambienti di lavoro, delle aziende sanitarie, fondate su diffusione e gravità del rischio e sui dati statistici relativi ad infortuni o malattie professionali, bensì suggerire un ulteriore criterio di programmazione di cui tener conto".

Merita un espresso richiamo un’osservazione conclusiva del rapporto, là dove si afferma che "non va dimenticato come lo stesso legame tra il sistema sicurezza e il sistema qualità sia una garanzia per la salute dei lavoratori e anche per la produttività aziendale".

Insomma, con quel rapporto si era in presenza di un approccio finalmente complessivo, non limitato a una visione angusta e settoriale, ma idoneo ad accogliere tutti gli aspetti del fenomeno, attorno ai quali impostare una strategia globale e condivisa di interventi.

E’ significativo il fatto che il rapporto si concludeva con un’osservazione molto puntuale: "in questa ottica, sarebbe negativo per il sistema procedere con semplificazioni legislative per affrontare un problema sostanzialmente complesso".

Orbene, se questi erano i parametri e le indicazioni disponibili, la lettura dello schema di decreto legislativo non consente di esprimere valutazioni positive e di particolare apprezzamento; piuttosto sembra doversi parlare di una grande occasione mancata (e non solo da ora, perché all’origine c’è il provvedimento di delega, già allora criticato da molti studiosi e operatori).

E’ vero che vi sono alcuni aspetti positivi, fra i quali vanno ricordati: il fatto stesso di tentare un coordinamento e riduzione ad unum di norme complesse e non sempre coerenti fra loro; la previsione dell’estensione delle tutele a tutti i lavoratori subordinati e autonomi, quale che sia la tipologia dei contratti; il tentativo di introdurre qualche semplificazione, soprattutto a vantaggio delle imprese minori. E’ altrettanto vero, però, che il provvedimento non sembra tener conto né delle indicazioni dell’articolo 24 della legge 833/78, né delle esperienze e conoscenze acquisite nel corso della tredicesima legislatura né –infine, e questo è ancora più grave– del rapporto di monitoraggio delle Regioni. In sostanza, non solo non si colgono, nello schema, significative innovazioni in tutti i settori indicati come più "critici", ma non si individuano affatto rimedi concreti e validi contro il livello troppo basso di attuazione dei precetti normativi (vuoi sotto forma di vera e propria inottemperanza, vuoi sotto il profilo di adempimenti solo formali e burocratici).

In più, si colgono agevolmente sintomi assai gravi di arretramento rispetto al sistema vigente, che proprio in alcuni suoi punti nodali rischia di essere notevolmente indebolito; con ulteriori pericoli per quanto riguarda la sicurezza del lavoro, notoriamente in fase tuttora critica, e con ulteriori rischi di scontro con l’Unione europea, qualora venga riscontrato che l’arretramento riguarda anche le linee assunte dall’Unione europea nelle sue direttive.

In particolare:

a.      l’articolo 1 appare riduttivo rispetto ai poteri e alle competenze legislative e relativi limiti. Nessun dubbio sull’obbligo di rispetto delle normative comunitarie; ma è assai improbabile che il limite della legislazione delle Regioni e Province autonome possa ridursi al "rispetto dei principi fondamentali ricavabili dal presente decreto legislativo". Manca del tutto il riferimento alla Costituzione ed ai principi fondamentali di cui all’art. 117, nuovo testo, comma 3 (princìpi che non possono essere ridotti solo a quelli ricavabili dal decreto legislativo). Tutto questo va rilevato non già per sminuire i poteri delle Regioni, che sono e restano rilevanti, ma per evitare una complessiva discrasia, nel sistema di sicurezza, e fenomeni eventuali di dumping economico – sociale a livello territoriale.

b.      l’articolo 2087 c.c. è ritenuto norma di fondamentale importanza, da tutta la dottrina e da tutta la giurisprudenza. Questa norma, che esiste nel codice civile dal 1942 e che obbliga i datori di lavoro ad "adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro", non può subire gravi limitazioni con semplice tratto di penna, come pretenderebbe di fare l’art. 1 comma 4 dello schema. Non sarebbe più necessario, per il datore di lavoro, individuare lui stesso le misure necessarie, al di là delle previsioni normative, perché basterebbe rispettare le prescrizioni del decreto legislativo e le "norme" di buona tecnica e di buona prassi. Non c’è dubbio che siamo di fronte ad un notevolissimo passo indietro rispetto a un principio che in tutti questi anni è stato recepito come fondamentale e che anzi in alcune sentenze della Corte di Cassazione ed anche a seguito dell’avvento delle direttive comunitarie, è stato ritenuto come ulteriormente rivitalizzato e rinforzato.

c.      Il principio esposto nell’articolo 6, comma 1 lettera b), secondo il quale l’eliminazione o la riduzione dei rischi dev’essere realizzata mediante "misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili….. in quanto generalmente utilizzate" è fortemente riduttivo rispetto al concetto di "massima sicurezza tecnologicamente fattibile", acquisito da anni dalla più diffusa giurisprudenza, proprio al fine di evitare un pericoloso riferimento non solo a valutazioni di convenienza economica, ma anche a pratiche generalizzate, che non è detto siano sempre le migliori e le più accreditabili scientificamente e tecnicamente. La sentenza della Corte Costituzionale 312/1996 è stata poi correttamente interpretata anche attraverso importanti decisioni della Corte Suprema di Cassazione, a fronte delle quali non è pensabile un arretramento e nemmeno un ripensamento facilmente giustificabile.

d.      La contrapposizione tra i veri e propri precetti normativi e le norme di buona tecnica e le buone prassi, finisce per depotenziare il sistema normativo, a vantaggio di indicazioni spesso evanescenti e non sempre dotate di reale effettività. Non di questo c’era bisogno, lo si è già detto; se mai, il sistema esigeva un ulteriore rafforzamento della precettività delle norme.

e.      Il sistema delle sanzioni, apparentemente lasciato inalterato (e certamente visto ancora con criteri molto riduttivi rispetto alle previsioni, addirittura, della legge 833/78), in realtà subisce un forte depotenziamento proprio perché la sanzione si accompagna, di regola, solo ai veri precetti normativi, ma non alle buone prassi e alle norme di buona tecnica. In realtà, in questo modo si realizza una forma di depenalizzazione sostanziale, della quale non vi era nessun bisogno, anche perché a prevedere adeguati correttivi all’eventuale rigidità del sistema aveva già provveduto lodevolmente il decreto 758/94.

f.       E’ da considerare come un sostanziale regresso, almeno rispetto alle attese ed alle necessità reali, anche tutto ciò che manca e che talora è semplicemente enunciato. In particolare, mentre nell’articolo 1 comma 2, si fa riferimento alla "responsabilità sociale delle imprese", in tutto il testo non si trova una disposizione che dia concreta attuazione al proposito manifestato nella norma. Per altro verso, non si coglie l’occasione per individuare i contenuti effettivi di quella "responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica" di cui si parla da anni e in particolare a partire dalla legge 29 settembre 2000 n.300, mai attuata nella parte relativa proprio alla sicurezza del lavoro.

Questi sono, peraltro, soltanto alcuni degli aspetti più clamorosi delle valutazioni non positive effettuate all’inizio, ai quali se ne potrebbero aggiungere certamente altri. Al di là di questi aspetti di carattere soprattutto di principio, vi sono numerose altre osservazioni da fare in termini di sufficiente concretezza e cominciando a scendere in qualche modo nel dettaglio, anche se i tempi consentono di farlo, per ora, soltanto in modo limitato.

In particolare:

1.      La tecnica utilizzata è quella di inserire nel Testo Unico i princìpi generali, trasferendo tutti gli aspetti più specifici negli allegati. In questo modo, però, il sistema non si rafforza e sotto certi aspetti si complica; mentre c’è il rischio evidente della degradazione di molti precetti imperativi al semplice livello di norme tecniche e di buone prassi, spesso sprovviste di sanzioni effettive. Non è convincente, d’altronde, l’argomento secondo il quale la collocazione di norme più dettagliate e specifiche fra gli allegati consentirebbe un più rapido aggiornamento delle norme; in realtà, per ottenere un risultato del genere vi sono ben altri sistemi e metodi, sul piano giuridico, altrettanto e probabilmente molto più validi e non suscettibili di creare riduzioni complessive del livello di tutela.

2.      Nella relazione si fa una distinzione netta tra un nucleo intangibile di norme che riguardano gli obblighi fondamentali di natura organizzativa e comportamentale e le norme di buona tecnica e le buone prassi. Altre volte si distingue tra disposizioni incidenti direttamente sulle condizioni di sicurezza ed altre la cui inosservanza non comporterebbe conseguenze immediate e dirette sulle condizioni di sicurezza, e quindi non sarebbero più obbligatorie. Queste distinzioni sono estremamente labili, sia in relazione alla difficoltà di individuare criteri differenziali sicuri, sia in rapporto alla chiarezza della normativa per la sua quotidiana applicazione, sia infine agli effetti della individuazione – in sede giurisdizionale – del nucleo fondamentale della colpa, nel caso di infortuni sul lavoro e relative responsabilità.

3.      L’esclusione di moltissimi lavoratori di varie tipologie dalla determinazione del numero di lavoratori dal quale il decreto fa discendere particolari obblighi (art. 4 co. 1) è certamente negativa, agli effetti di un efficace sistema di prevenzione.

4.      L’affidamento alla libera scelta del datore di lavoro dei criteri di redazione del documento di valutazione dei rischi (art. 7 co. 1 lettera b) n. 1) rappresenta un passo indietro rispetto alle definizioni oggettive ed al richiamo alle linee guida formulate da enti pubblici, che hanno costituito finora il principale punto di riferimento.

5.      La riconosciuta facoltà di redigere il documento di valutazione dei rischi in forma semplificata sulla base di indicazioni fornite dagli organismi bilaterali (art. 7 co. 6) è incoerente col sistema e palesemente pericolosa, oltreché negativa ai fini di una efficace e rapida vigilanza.

6.      Manca una disciplina completa ed efficace dei consulenti della sicurezza, ormai largamente diffusi in forma individuale o in forma societaria, nonostante inconvenienti ed abusi più volte segnalati da varie parti.

7.      Lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di prevenzione dev’essere consentito, ma con particolari cautele. Nello schema di decreto, invece, (art. 17) si ampliano i limiti già previsti dal 626, non si prevede alcuna forma di aggiornamento e si esclude ogni tipo di comunicazione agli organismi pubblici.

8.      La riunione periodica viene omessa proprio nelle aziende in cui il rischio è maggiore (art.18 co. 1).

9.      Le attribuzioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza vengono in qualche modo ridotte o comunque, per alcuni versi, sottoposte a limitazioni ingiustificate (art. 26 co. 1 lettera a)). Non vengono previste concrete garanzie contro eventuali ostacoli frapposti alla loro attività, non risultando sufficiente – in base alle esperienze ormai acquisite – il generico richiamo alle tutele previste per le rappresentanze sindacali. Tant’è che nella precedente legislatura fu discussa a lungo l’ipotesi di uno specifico intervento normativo, poi decaduto per fine legislatura e mai ripreso in considerazione.

10.  Il ritorno alla figura della disposizione (art. 32), divenuta inutile specialmente dopo il decreto 758/94 e dopo alcune esperienze non esaltanti, è certamente negativo, perché introduce meccanismi complicati e sicuramente non certamente non validi ai fini dell’efficacia e della prontezza degli interventi. Il sistema previsto di mera sanzionabilità in forma indiretta dell’inosservanza della disposizione, è assai debole e certamente soggetto ad enormi difficoltà attuative, essendo previsto, (art. 32 co. 2) il ricorso gerarchico, con possibile efficacia sospensiva. In realtà, si sarebbe dovuto operare – invece – nella direzione di un rafforzamento del sistema previsto dal citato decreto 758/94, dimostratosi – nel complesso – valido.

11.  Non si capisce perché, dopo aver proclamato la rilevanza del ruolo delle Regioni, non si consenta loro di effettuare monitoraggi se non "congiuntamente" con altri organismi, pubblici e privati (articolo 34 co. 1); in realtà, se è certamente auspicabile un coordinamento, non si vede perché ogni verifica debba essere fatta in forma congiunta tra numerosi enti.

12.  Il sistema delle sanzioni viene fortemente depotenziato, non solo per quanto riguarda la minore responsabilizzazione dei datori di lavoro, ma anche e soprattutto perché troppe sono le disposizioni che passano a livello di buone prassi o di norme tecniche.

13.  L’abrogazione di interi provvedimenti tuttora dotati, per molti aspetti, di validità ed efficacia (art. 186, con particolare riferimento ai decreti presidenziali 547/55 e 303/56) e la degradazione di alcune parti di essi a livello di buona tecnica o buone prassi, significa sostanzialmente disperdere un patrimonio normativo che per tanti anni è riuscito a conservare un saliente valore.

14.  L’aggiornamento continuo di tutti gli operatori addetti alla sicurezza, pubblici e privati, è previsto in forma oltremodo generica e vaga.

15.  Il rafforzamento della rete delle strutture pubbliche, da tutti auspicato, sia per le funzioni di prevenzione e consulenza che per quelle di vigilanza e repressione, è sostanzialmente assente. Non si riesce a trovare traccia, in alcuna parte del testo, delle osservazioni e delle proposte formulate dalle Regioni nel rapporto conclusivo più volte ricordato, in cui si proponeva un ripensamento della stessa "mission" degli organi SMI della prevenzione, in funzione di un rafforzamento sostanziale e del superamento delle note difficoltà che si frappongono a un’attività davvero organica, programmata, efficace e coordinata, soprattutto ai fini della prevenzione e della tempestività di ogni intervento.

16.  Per un provvedimento che dovrebbe unificare e coordinare tutto il sistema sono troppe le esclusioni e le deroghe, anche per settori di particolare rilievo o rischiosità.

17.  Per quanto riguarda le sanzioni amministrative o meramente pecuniarie, manca una disciplina moderna e aggiornata che ne consenta una reale effettività, nonostante i buoni propositi manifestati nella relazione.

18.  Si parla più volte, e talora con accenti particolarmente enfatici, del nuovo ruolo che si intende assegnare agli enti bilaterali, anche in tema di sicurezza del lavoro. Per la verità, un rafforzamento degli organismi previsti dall’art. 20 del decreto 626 era stato chiesto da più parti. Ma non sembra che quella adottata possa essere considerata la soluzione giusta. La facoltà di compiere sopralluoghi (art. 27 co. 4) per verificare l’applicazione delle norme si sovrappone palesemente e pericolosamente ai compiti e alle funzioni degli organismi pubblici di vigilanza. Mentre il potere di rilasciare una certificazione si sovrappone ai compiti di altri organismi anche privati, non solo senza vantaggi reali, ma anzi col rischio di produrre problemi e tensioni anche nell’ambito aziendale, per la possibilità di conflitti e contrasti con l’attività dei RLS e delle stesse rappresentanze sindacali. Tantomeno appare convincente l’attribuzione agli enti bilaterali di un’altra funzione impropria qual è quella di fornire indicazioni per la stesura del documento di valutazione dei rischi nell’ipotesi di cui all’art. 6 co.7 dello schema. Sarebbero certamente più utili di tutto quanto previsto, disposizioni dirette ad incentivare sia i compiti tipici degli organismi di cui all’art. 20 del decreto 626, sia la contrattazione collettiva di settore a livello aziendale. Ciò si può ottenere agevolmente con strumenti indiretti e rispettosi dell’autonomia delle organizzazioni sindacali (basti pensare all’ipotesi, sperimentata in altri Paesi, di incentivazioni, premi e riconoscimenti di qualità, in favore delle aziende nelle quali vigono buone relazioni collettive).

19.  Sono difficilmente comprensibili le ragioni che stanno alla base del previsto "ridimensionamento" della Commissione permanente (art. 35), che avrebbe solo bisogno di essere fatta funzionare a regime, senza le pause particolarmente lunghe cui si è assistito negli ultimi anni.

20.  Le disposizioni relative alle incentivazioni e alle attività promozionali, soprattutto a favore delle piccole imprese (art. 37) sono di una genericità assoluta, mentre è incomprensibile l’attribuzione di particolari ed esclusivi poteri, in questo campo, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

21.  La sorveglianza sanitaria diventa obbligatoria solo per i rischi previsti dal decreto (art. 23 co. 1). Con ciò non viene presa in considerazione, in alcun modo, la tematica dei cosiddetti "nuovi rischi" collegati all’organizzazione del lavoro ed agli aspetti relazionali (non solo ripetitività e monotonia, ma anche mobbing, molestie nei luoghi di lavoro, ecc.), nonostante che la materia abbia formato oggetto, di recente, di particolare attenzione da parte di tutti gli studiosi ed anche dello stesso INAIL (v. circolare 71 del dicembre 2003).

22.  Infine, se è giusta – come si è già rilevato – la estensione di tutte le norme e misure di sicurezza a tutti i lavori e a tutte le tipologie di rapporti, è evidente che l’estensione – di per sé – non è sufficiente, viste le ovvie difficoltà che si prospettano per ciò che attiene al lavoro autonomo e per tutti i lavori frammentati, "atipici", eseguiti in luoghi diversi dalla sede principale di lavoro, in forme particolari, e così via, per i quali l’informazione, la formazione e la stessa vigilanza sono certamente assai poco agevoli. Un testo che volesse essere davvero innovativo non dovrebbe esimersi dal fornire indicazioni e regole precise, adeguate alle singole fattispecie. La genericità dei riferimenti previsti può costituire soltanto un’agevole fonte di inadempimenti e di inosservanze sia dei veri e propri precetti che delle stesse indicazioni fornite dalla tecnica e dalla prassi, peraltro in questo campo ancora, e per forza di cose, del tutto insufficienti.

Naturalmente, questi rilievi sono soltanto quelli formulabili nei tempi ristretti di un primo esame di un testo apparso assai di recente, dopo varie formulazioni e diversi ritocchi. Se ci sarà, come sembra, la proroga del termine per l’emanazione del decreto legislativo fino al 30 giugno 2005, sarà certamente possibile approfondire l’analisi, effettuare raffronti puntuali tra la materia inserita nello schema e quella finora vigente, e così via; e sarà certamente possibile formulare proposte anche più concrete di modifica delle parti di cui si è segnalata la criticità. Lo spostamento del termine sarebbe certamente utile al fine di consentire alle Regioni di esprimere in tempi ragionevoli il parere prescritto dalla legge e allo stesso Parlamento di discutere a fondo un problema di così rilevante importanza emanando pareri ragionati e utili alla individuazione delle migliori soluzioni possibili, in un settore nel quale si assiste ancora quotidianamente a fenomeni molto preoccupanti e certamente assai dolorosi, come quelli degli infortuni sul lavoro (e particolarmente di quelli più gravi) e come le malattie da lavoro, che si vanno diffondendo, al di là di quelle tradizionali, anche in relazione al mutamento delle condizioni di lavoro, delle tecnologie e delle trasformazioni dei processi produttivi.

Milano, 14 dicembre 2004