P a v o n e R i s o r s e

 

La partita doppia

dell'insegnamento-apprendimento.

 Andrea Bagni, da Pavone Risorse del 26/9/2005

 

Insegno da un numero di anni sufficiente a farmi incontrare ogni tanto ragazze e ragazzi ormai adulti che sono stati miei studenti. Quando si incontra qualcuno dopo anni è facile parlare subito delle cose che contano, della propria vita, di quello che si era e si è, dell'essere felici o meno.

Qualche giorno fa due ragazze mi hanno raccontato del loro essere non più precarie, ragioniere presso ditte importanti. Del fare quello, in un certo senso, per cui hanno studiato e si sono preparate. Quasi delle privilegiate. E tuttavia insoddisfatte, per nulla felici della loro sistemazione più o meno sicura.

Quelle ragazze me le ricordavo benissimo perché erano fra le più vivaci e impegnate di quegli anni. La cosa che mi ha fatto pensare è che ero dispiaciuto, certo, di quello che mi dicevano della loro vita, tuttavia erano proprio belle nel loro non essere appagate. Mi è piaciuta la loro insoddisfazione. Come non fossero troppo cambiate, non si fossero "perdute" nel tempo – anche se parlavano di cose amare, di disincanto verso la politica l'impegno eccetera (ma anche i ragazzi che mi dicono di rifiutare gli straordinari – compreso il venerdì, che dev'essere uno scandalo - semplicemente perché vogliono avere tempo libero per sé, non pensano che quella sia una cosa politica).

Io non credo che la scuola debba produrre un sapere che si realizza senza residui nel lavoro (nel lavoro di oggi poi). Mi sembra giusto, in un certo senso, che si determini una eccedenza di sapere, che può generare insoddisfazione ma anche lo spazio di una propria autonomia, dell'immaginazione di sé, cioè del senso critico. Forse è eccessivo affermare che oggi la fabbrica postfordista mette al lavoro il sapere, che siamo nella società della conoscenza ecc.. Le conoscenze che sono impiegate nel lavoro sono spesso sotto-conoscenze, sempre esecutive e tutte prestazionali. Roba che non ha neppure bisogno di scuola: si formano nel tessuto sociale, nelle forme stesse del consumo, per contatto quasi (tipo la confidenza con tastiere monitor linguaggi tecnologici). E sono connotate da radicale subalternità. Peraltro sono sempre di più nel mondo gli esclusi dal sapere e dal lavoro, altro che società della conoscenza. E tuttavia qualcosa è cambiato. È difficile essere credibili oggi quando si insiste sul bisogno di una scuola anticipatamente canalizzante, di addestramento, tutta proiettata sul mondo del lavoro, e allo stesso tempo si ripete a ragazze e ragazzi che dovranno abituarsi a cambiare quattro o cinque lavori nella vita (come fosse una festa della creatività sociale e non l'inferno del precariato). Qualcosa non va. Ciò si cerca non è affatto la formazione "professionale" ma l'educazione alla docilità delle nuove professioni. Una specie di adattamento autonomo, meglio se entusiasta, all'evanescenza del mercato. Si dice ai giovani che devono farsi "imprenditori di se stessi" nel momento in cui si offrono loro lavori sempre più neoservili, tipo quelli dei call-center. Allora mi sembra bello che almeno l'entusiasmo ragazze e ragazzi non lo concedano tanto facilmente al lavoro (neanche a quello "sicuro" - sicuro, poi?). Mi sembra l'inizio di una sottrazione a un modello di società, fatto di frammentazione dei legami sociali, precarizzazione delle relazioni e dell'esistenza, di impaurite solitudini in competizione fra loro, che vivono nei loro salottini, tenute insieme dalle reti televisive. Pubblico di uno spazio privato. Dovrebbero cercare la trascendenza alla Marcello Pera, cioè nella riduzione del sacro al suo più volgare uso politico; le radici nel sangue e suolo del leghismo, la politica nell'affidamento al Premier che governi senza fastidiosi limiti, già liberali. La riforma costituzionale di Berlusconi – pur scritta con i piedi da quattro cialtroni – è la proposta di un modello forte di società e cittadinanza, costruita sulla desertificazione delle relazioni interpersonali. Sulla fine della polis. La scuola della riforma Moratti è perfettamente coerente con questo modello di società. Un percorso per la classe dirigente, un altro per quelli che hanno "attitudine" al sapere operativo e al lavoro. E su tutto le famiglie che si comprano i segmenti di sapere (modularizzato e componibile come una merce da assemblare) che costituisce il "capitale conoscitivo" necessario al competere vincente dei figli. Allora il linguaggio sarà quello dei crediti certificabili e dei debiti da saldare, del portfolio, dei punti di bonus all'esame, degli sportelli di recupero, dei test da somministrare. E poi POF, PSP, UDA... Neppure economicismo: contabilità bancaria, partita doppia dell'insegnamento-apprendimento, ospedale militare – per le somministrazioni. Perché poi la scuola rimane una megamacchina (sotto l'orizzonte celeste delle formulazioni spiritualistiche alla Bertagna) che dispensa voti, anzi punteggi, secondo una logica incomprensibile ai più, che associa severe pretese enciclopediche a faciloneria e marmellate di conoscenze usa-e-getta stile Bignami (anzi Cepu).

Si può ironizzare su questi statisti e riformatori, ma non si vince secondo me se non si ha in mente e si vive un altro modello di società.

Perché forse crescono una nuova soggettività e nuovi soggetti in queste trasformazioni (che gli studenti a modo loro sentono, quando nell'ultimo anno mostrano una specie di dolce e buffa nostalgia della scuola, come luogo protetto di relazioni penso). Perché se si chiede davvero un'adesione all'azienda perfino emotiva (come fosse una comunità, una famiglia), offrendo legami personali che proteggano nella fine di ogni garanzia e diritto (neofeudali dunque), tutto questo rende in un certo senso preziosa la soggettività. Politica. La fa diventare il luogo del conflitto.

Il lavoro ti lascia forse più libere le braccia ma non smette mai di occuparti il temo e la mente - e di chiederti l'anima: immaginazione, creatività, capacità relazionali (da far diventare magari "cura delle relazioni col cliente"). Però poi ragazze e ragazzi mica si vendono tanto facilmente. In classe mandano spesso le loro ubbidienti controfigure scolastiche, e mi domando se non facciano altrettanto sul lavoro. Hanno una loro ricchezza (di sapere, di desideri) che usano per fare altro altrove, nel tempo libero, nel volontariato. E questo interroga, mi sembra, il sapere, la scuola e anche le pratiche della politica - perché non saranno militanti come quelli che conoscevo io alla loro età (per fortuna); hanno bisogno di portare l'intera vita nelle cose che fanno, non il sacrificio di sé oggi, per un radioso futuro domani, una volta preso il potere. Insomma una dimensione esistenziale della politica, l'esserci interamente costruendo relazioni felici, liberando territori che diano senso alle barricate.

Anche la scuola dovrebbe diventare altro. Intanto ha senso (perfino "economico") solo se mira a una conoscenza profonda, comune e di base, che non insegua la rapidità delle micro-conoscenze direttamente implicate nei processi produttivi; se ha come obiettivo la costruzione di un solido "sistema operativo" mentale, non l'assemblaggio di assaggi degli ultimi programmi – e meglio se il modello è linux, aperto e cooperativo, piuttosto che microsoft. E poi quella soggettività di generi e generazioni diverse è ciò che abita (magari sofferente, ma senza indifferenza) le scuole. E il compito è aprire il sapere alle domande, ai dubbi, ai desideri di ragazze e ragazzi (pure nel rapporto dispari, asimmetrico, che è della scuola - nel quale i maschi, di tutte le età, sono quelli più in crisi, fra modelli di potere deprimenti e distanze inarrivabili con se stessi, con la propria parzialità).

Si potrebbe anche dire che un nuovo valore d'uso del sapere cresce nella crisi del valore di scambio; il suo essere bene comune non mercificabile - peraltro un bene strano, che non si consuma con l'uso ma anzi si moltiplica e rende ancora più artificiali le "enclosures".

Se poi questo valore d'uso fa sentire una parte di sé (forse la più importante) fuori luogo in certi luoghi, non mi sembra male. Può voler dire che si è vivi e interi. Un po' ribelli anche. Cioè liberi.