Il liceo, un'ottima scelta.

 Enrico Santarelli, da La Voce del 17/2/2006

 

Dati nazionali ancora provvisori segnalano una preferenza delle nuove generazioni per i licei e una certa disaffezione per gli istituti tecnici. Tutto ciò viene accolto con preoccupazione. Eppure, in altri paesi tendenze analoghe rappresentano l’adeguamento del sistema educativo alle esigenze di modernizzazione delle imprese.
Come cambia l’organizzazione del lavoro.

 

Come cambia l’organizzazione del lavoro

Alcuni commentatori hanno espresso preoccupazione sull’abbandono dell’istruzione tecnica da parte delle nuove generazioni, sostenendo che si tratta di un sintomo del loro crescente distacco dal mercato del lavoro. (1)

Poiché i timori sulla crisi dell’istruzione tecnica nascono da una visione datata dell’organizzazione del lavoro nelle imprese, è opportuno delineare con chiarezza le tendenze in atto, orientate al superamento del modello basato sull’impiego di figure professionali rigide e affermatosi in presenza di una sostanziale stabilità della tecnologia.

 Molti studi hanno mostrato come fin dall’inizio degli anni Novanta le tecnologie dominanti - cioè quelle dell’informazione e della comunicazione - siano tipicamente ad ampio spettro e soggette a rapida obsolescenza. Gli studi hanno anche dimostrato che l’introduzione dell’Ict ha prodotto i risultati migliori quando accompagnata da un’accelerazione del cambiamento organizzativo che, partito dalla fabbrica fordista (con maestranze specializzate nell’esecuzione di mansioni immutabili nel corso della loro vita lavorativa), è approdato all’adozione di pratiche di lavoro flessibili e orizzontali (con maestranze in grado di acquisire competenze continuamente rinnovate e responsabilità decisionali).

 Queste nuove pratiche, che nulla hanno a che fare con la precarizzazione del lavoro, indotta semmai dalla proliferazione di contratti a tempo determinato, includono la decentralizzazione e la deverticalizzazione gerarchica a favore di una maggiore responsabilizzazione e autonomia dei lavoratori. Possono essere sintetizzate da due prassi ormai consolidate nelle organizzazioni produttive più moderne ed efficienti:

1) la misurazione e l’incentivazione/premiazione del contributo collettivo, cresciuta di importanza con la diffusione del lavoro in team;

2) la flessibilità e multifunzionalità del singolo lavoratore, al quale viene richiesto di ruotare tra mansioni, sfruttando a questo scopo la capacità di apprendere e adattarsi a situazioni in continua evoluzione.

 Studi recenti condotti per Francia e Stati Uniti mostrano che le nuove pratiche organizzative richiedono lavoratori che abbiano maggiore flessibilità e maggiore autonomia, acquisibili soltanto attraverso un’educazione generalista e incrementabili con l’impiego di idonee strategie di gestione delle risorse umane da parte delle imprese.

 Pratiche di questo tipo sono meno alienanti di quelle precedenti, perché permettono al lavoratore di seguire una più ampia varietà di fasi del ciclo produttivo e comportano, attraverso il decentramento delle decisioni, una democratizzazione sostanziale dell’attività lavorativa. L’Ict, che favorisce tali pratiche e ne è a sua volta favorita, richiede però nuove competenze nelle forze di lavoro: senza un’opportuna riqualificazione delle risorse umane, nel migliore dei casi tarda a diffondersi oppure determina quell’impatto negativo sulla produttività e sulla competitività che va sotto il nome di "paradosso di Solow".

 

La formazione che serve

Se, dunque, gli incrementi di produttività resi possibili dall’Ict presuppongono riorganizzazione di funzioni e mansioni nonché innalzamento delle qualifiche, la politica per l’educazione non può più concentrarsi sulla preparazione specifica indispensabile all’utilizzo diretto della tecnologia, come avvenuto per decenni grazie alla funzione meritoria degli istituti tecnici e professionali. Deve indirizzarsi invece verso l’estensione e il rafforzamento della formazione generalista e delle capacità relazionali. In quest’ottica, i gloriosi istituti tecnici fanno parte di un modello di formazione che, cruciale in un mondo nel quale la tecnologia evolveva lentamente e senza strappi, risulta oggi meno rilevante che in passato. Alla formazione specialistica che tanto ha contribuito allo sviluppo industriale italiano fino agli anni Ottanta, va oggi preferita una che addestri operatori in grado di apprendere sul lavoro (on-the-job training) e fuori dal lavoro (off-the-job training), e agevoli la diffusione di pratiche flessibili e degerarchizzate, nelle quali il processo decisionale diviene prerogativa di chi esegue la mansione e prescinde dal controllo di livelli gerarchici intermedi che nelle moderne realtà organizzative non esistono più.

Da questo punto di vista, l’educazione generalista/relazionale gode di almeno tre vantaggi:

a)  non viene resa obsoleta dall’accelerazione del progresso tecnologico;

b) predispone a una flessibilità di impiego che ben si coniuga con il carattere pervasivo delle nuove tecnologie;

c) è orientata al conseguimento di quelle capacità di visione generale che sono requisiti essenziali di una forza lavoro in grado di adattarsi ai cambiamenti tecnologici e organizzativi in atto.

Tuttavia, un mutamento di indirizzo nelle strategie educative può essere realizzato soltanto attraverso politiche attive che riequilibrino i finanziamenti pubblici nazionali e locali tra educazione generalista (licei e lauree triennali non professionalizzanti) e educazione specialistica (istituti tecnici e lauree triennali professionalizzanti). Non a caso, il rapporto tra sussidi all’educazione generalista e sussidi all’educazione specialistica è di 2,55 negli Stati Uniti, dove negli ultimi due decenni la diffusione contestuale dell’Ict e delle pratiche di lavoro flessibili ha consentito significativi e simultanei incrementi di produttività e occupazione, mentre è di 1 in Germania e Italia, dove ristagnano sia l’occupazione che la produttività.

Che nuove generazioni di lavoratori formatesi in un sistema educativo che antepone il "capire" al "saper fare" possano essere viste come inadatte a soddisfare le esigenze di imprese moderne e capaci di competere sui mercati internazionali, o come vittime del neo-liberismo, sembra un apriorismo neo-conservatore, legato alla difesa di un "piccolo mondo antico" che per fortuna (dei lavoratori) è stato ridimensionato dall’interazione virtuosa tra innovazione tecnologica e organizzativa.

 

Per saperne di più

- Krueger, D. e K. B. Kumar (2004), "Skill-specific rather than General Education: A Reason for US-Europe Growth Differences?", Journal of Economic Growth, 9(2), 167-207.

- Piva, M., E. Santarelli e M. Vivarelli (2005), "The Skill Bias Effect of Technological and Organisational Change: Evidence and Policy Implications", Research Policy, 34(2), 141-157.

(1) Lo afferma ad esempio G. Barbiellini Amidei sul Corriere della Sera del 15 febbraio. Ma è istruttiva in proposito anche la polemica bolognese sui tagli dei fondi all’istituto tecnico Aldini decisi dall’amministrazione comunale della città. Vedi l’articolo di F. Berardi su Liberazione del 27 dicembre 2005.