Congedi retribuiti: di Carlo Giacobini* da Handy Lex, 8.4.2010 I congedi straordinari di due anni, disciplinati dall’articolo 42, comma 5, del Decreto Legislativo 151/2001, sono – assieme ai permessi lavorativi mensili previsti dall’articolo 33 della Legge 104/1992 – una agevolazione lavorativa di grande interesse per i familiari di persone con grave disabilità. La norma istitutiva (Legge 388/2000, articolo 80, comma 2) ammetteva al beneficio solo i genitori di persone con handicap grave e – in casi eccezionali – i fratelli e le sorelle conviventi con il disabile, due successive Sentenze della Corte Costituzionale (n. 158/2007 e n. 19/2009) hanno esteso anche al coniuge e ai figli la facoltà di avvalersi del congedo retribuito di due anni. In questi due casi la Corte ha posto come condizione la convivenza con il familiare da assistere, prerequisito che già valeva per fratelli e le sorelle. Per i figli che assistono i genitori – va sottolineato – la Corte aggiunge anche un’altra condizione: i congedi possono essere concessi «in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave».
Dubbi interpretativiSul significato da attribuire al concetto di “convivenza” tuttavia, sono emersi da subito dei dubbi interpretativi e, conseguentemente, applicativi. La Corte Costituzionale, rifacendosi alla norma istitutiva, parla genericamente di “convivenza”, senza entrare nel merito delle più precise definizioni del Codice Civile che distingue nettamente fra residenza e domicilio. Ma come si dimostra la convivenza? È necessaria la effettiva residenza che risulta dallo “stato di famiglia” o è sufficiente il “domicilio”?
Prime indicazioniUna prima indicazione l’aveva fornita l’INPS, sentito il Ministero del Lavoro, con il proprio Messaggio n. 19583 del 2 settembre 2009. Il Messaggio stabiliva che - alla luce della necessità di una assistenza continuativa - per convivenza si deve fare riferimento, in via esclusiva, alla residenza, luogo in cui la persona ha la dimora abituale, ai sensi dell’articolo 43 del Codice Civile, non potendo “ritenersi conciliabile con la predetta necessità la condizione di domicilio né la mera elezione di domicilio speciale previsto per determinati atti o affari dall’articolo 47 del Codice Civile”. L’INPS, nemmeno nei moduli di richiesta del congedo, non richiede la presentazione del certificato anagrafico di residenza, ma chiede al lavoratore una dichiarazione di responsabilità in cui si sottoscrive la convivenza intesa come dimora abituale comune alla persona da assistere. Si guarda, cioè, alla sostanza della situazione e non alla formalizzazione “anagrafica”. Si facevano salve in tal modo le situazioni “ibride”, quali – ad esempio – il caso delle coabitazioni di fatto senza trasferimento ufficiale di residenza, ma al contempo era possibile far pesare, già in fase istruttoria, la evidente assenza di continuità derivante da diversi “domicili”, pur in presenza di formale residenza. In sostanza: il congedo poteva essere negato a chi pur risiedendo formalmente assieme al familiare da assistere, fosse impiegato in un’altra città o magari in un’altra regione.
Difficoltà applicativeTuttavia in sede applicativa, gli stessi Uffici periferici dell’INPS, in questi mesi, hanno preso in considerazione strettamente la residenza effettiva comune, unica condizione effettivamente verificabile attraverso un controllo incrociato all’anagrafe comunale di riferimento. Ma in questo caso hanno prestato il fianco a prevedibili contestazioni di lavoratori che hanno interpellato il Ministero del Lavoro. La più evidente contestazione: se il familiare abita allo stesso numero civico, ma non allo stesso interno, secondo questa logica strettamente letterale, veniva escluso dalla concessione dei benefici.
Parere del Ministero del LavoroSu questo aspetto è, quindi, intervenuto nuovamente il Ministero del Lavoro con una propria Circolare con cui ritorna, in modo assai impacciato, sulle precedenti generiche indicazioni impartite all’INPS. Lo fa con la Lettera Circolare del 18 febbraio 2010, Prot. 3884, che parte da una situazione pur frequente, ma particolare: la concessione dei congedi nel caso il familiare da assistere, abiti nello stesso condominio del lavoratore che richiede il congedo (stesso numero civico) ma in un appartamento diverso (altro interno). Il Ministero premette: “è di tutta evidenza che la residenza nel medesimo stabile, sia pure in interni diversi, non pregiudica in alcun modo l'effettività e la continuità dell'assistenza al genitore disabile.” E prosegue: “Ancorare, quindi, la concessione del diritto esclusivamente alla coabitazione priverebbe in molti casi il disabile della indispensabile assistenza atteso che, il più delle volte, gli aventi diritto hanno già conseguito una propria indipendenza.” Una considerazione condivisibile, addirittura più ampia di quella indicata dalla Corte Costituzionale, ma contraddetta nella forma e nella sostanza dalla disposizione successiva: “al fine di addivenire ad una interpretazione del concetto di convivenza che faccia salvi i diritti del disabile e del soggetto che lo assiste, rispondendo, nel contempo, alla necessità di contenere possibili abusi e un uso distorto del beneficio, si ritiene giusto ricondurre tale concetto a tutte quelle situazioni in cui, sia il disabile che il soggetto che lo assistite abbiano la residenza nello stesso Comune, riferita allo stesso indirizzo: stesso numero civico anche se in interni diversi.”
Esclusioni e contraddizioniIl principio espresso in premessa, è vincolato dalla necessità di contenere gli abusi. Quindi, il Ministero dispone arbitrariamente un limite (che spaccia per concessione): abitare nello stesso stabile allo stesso numero civico, anche se non allo stesso interno. Sono esclusi, ad esempio: i residenti in condomini contigui, i residenti in abitazioni comuni (es: biville) con numeri civici diversi, i residenti nello stesso stabile che abbia due ingressi diversi oltre, ovviamente, a tutti i casi in cui le due abitazioni si trovino anche a soli 10 metri di distanza. Se l’indicazione contenesse elementi sufficienti per contenere gli abusi, potrebbe essere comprensibile. Ma il Ministero, fissando ed esplicitando questo limite, legando strettamente la concessione dei congedi alla formalità dei riscontri anagrafici, apre a ben altri abusi. Infatti, con questa indicazione, avranno diritto alla concessione dei congedi i lavoratori formalmente residenti con i genitori o con i fratelli, ma che di fatto abitano (senza aver trasferito la residenza) anche a 1000 chilometri distanza. Se, infatti, in precedenza questi non potevano dichiarare – senza commettere un falso – la comune abituale dimora, ora potranno ottenere i congedi sulla base della semplice presentazione (o autocertificazione) della comune residenza riscontrabile al Comune di appartenenza.
Cogenza delle nuove indicazioniL’indicazione del Ministero del Lavoro è cogente sia per il comparto pubblico che per quello privato.
L’INPS ha, comunque, ripreso le indicazioni del Ministero del
Lavoro, con il proprio Messaggio n. 6512 del 4 marzo 2010. 8 aprile 2010
Carlo Giacobini |