Corte Costituzionale. Sentenza n. 13/1991

(Chi non si avvale dell'IRC non può essere
costretto ad accettare "l'ora alternativa").

 REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 composta dai signori:

Prof. Giovanni CONSO    

Presidente

Prof. Ettore GALLO

Giudice

Dott. Aldo CORASANITI 

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA 

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI     

Prof. Luigi MENGONI 

Prof. Enzo CHELI  

Dott. Renato GRANATA  

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e del punto 5, lettera b), numero 2, del relativo Protocollo addizionale, promosso con ordinanza emessa il 4 maggio 1990 dal Pretore di Firenze nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Sommani Letizia ed altri e Amministrazione scolastica ed altro, iscritta al n. 477 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visto l'atto di costituzione di Sommani Letizia ed altri, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica dell'11 dicembre 1990 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;

uditi gli avvocati Stefano Grassi, Carlo Mezzanotte, Corrado Mauceri, per Sommani Letizia ed altri e l'Avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di due procedimenti ex art. 700 del codice di procedura civile, in cui le parti avevano richiesto la declaratoria d'illegittimità degli orari scolastici adottati nelle scuole elementari e medie statali frequentate dai loro figli, nella parte in cui l'insegnamento della religione era collocato nel novero delle ore obbligatorie, sull'assunto dell'inesistenza di un obbligo dei minori a rimanere a scuola durante tale insegnamento, il Pretore di Firenze, riuniti i procedimenti, con ordinanza dei 4 maggio 1990, ha sollevato, in relazione agli artt. 2, 3, 19 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121, e dei punto 5, lettera b), numero 2, dei relativo Protocollo addizionale.

Ricorda il giudice a quo di aver sollevato, in analogo giudizio, identica questione con una precedente ordinanza, a seguito della quale venne emessa la sentenza n. 203 del 1989 dichiarativa della non fondatezza della questione. Premessa l'affermazione della propria giurisdizione, sulla base di un esplicito riconoscimento, sul punto, della citata sentenza, il Pretore rimettente rileva che la Corte omise di prendere in esame la prospettazione, "pur diffusamente motivata", concernente la collocazione dell'insegnamento religioso nell'ambito dell'orario scolastico obbligatorio. I problemi conseguenti sarebbero perciò rimasti insoluti, a fortiori a seguito della circolare n. 188 dei 25 maggio 1989 con cui il Ministero della pubblica istruzione ha offerto agli studenti non avvalentisi la scelta tra: 1) attività didattiche e di formazione; 2) di studio e/o di ricerca individuali; 3) nessuna attività (precisando, con successiva circolare n. 189 del 29 maggio 1989, che soltanto l'attività di cui sub 2 viene espletata con l'assistenza del personale docente).

La collocazione dell'insegnamento nell'ambito dell'orario ordinario comporterebbe per i non avvalentisi l'obbligo di rimanere a scuola, nonché - con particolare riguardo alla scuola elementare - la riduzione del numero di ore disponibili per la normale attività didattica.

L'impugnata normativa - in quanto così interpretata - risulterebbe, a parere dei giudice a quo, lesiva: 1) dell'art. 2 a causa del pregiudizio derivante, nell'ambito della formazione sociale - scuola, al libero sviluppo della personalità del minore; 2) dell'art. 3 per la discriminazione tra avvalentisi e non; 3) dell'art. 19 per il vulnus alla libertà religiosa, intesa come libertà di non professare ed esercitare alcuna fede; 4) dell'art. 97, in quanto idonea a compromettere il buon andamento dell'amministrazione mantenendo nella "inazione totale" gli allievi affidati alla scuola per finalità educative e riducendo - in taluni casi - anche l'ambito degli insegnamenti curriculari.

2.- 16 intervenuto il Presidente dei Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità ovvero per l'infondatezza della questione. Sotto il primo profilo si eccepisce anzitutto il difetto di rilevanza in quanto si richiederebbe alla Corte una sorta di parere circa la portata della denunziata normativa (peraltro irrilevante nel giudizio a quo) e si sostiene, in secondo luogo, che il Pretore rimettente sarebbe privo di giurisdizione.

Nel merito si sottolinea, in atto d'intervento, come l'insegnamento religioso debba considerarsi - alla stregua della sentenza n. 203 del 1989 - quale elemento per la realizzazione dei fini della scuola, non diverso da altre materie. Nessun obbligo potrebbe mai essere tollerato - secondo l'Avvocatura - come conseguenza della scelta di avvalersi dell'insegnamento religioso, sì che chi abbia deciso di avvalersene non può essere trattenuto un'ora in più e la religione va considerata materia curriculare come le altre, entrando a formare quel tempo ritenuto globalmente necessario per l'istruzione.

L'Avvocatura conclude escludendo che le circolari ministeriali di cui sostanzialmente si duole il giudice a quo incidano sulla libertà religiosa, proprio in quanto non discriminano (trovandosi conferma di tale ratio nel dibattito parlamentare successivo alla sentenza della Corte) ed anzi, superando il precedente sistema dell'esonero" - che conduceva alla sostanziale emarginazione dell'alunno - e non consentendo l'allontanamento dalla scuola del non avvalentesi, considerano quest'ultimo permanentemente inserito nella comunità scolastica.

3.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituite alcune delle parti private depositando una memoria in cui viene chiesta la declaratoria d'illegittimità costituzionale delle norme censurate.

4.- Successivamente, nell'imminenza dell'udienza, hanno presentato memorie l'Avvocatura dello Stato e le parti private.

5.- L'Avvocatura ha insistito anzitutto nelle proprie eccezioni d'inammissibilità, sottolineando l'identità della questione rispetto a quella a suo tempo dal medesimo Pretore sollevata e decisa con la sentenza n.203 del 1989.

Dopo un ampio excursus sull'argomento, si pone in evidenza come l'art. 9 dell'Accordo 18 febbraio 1984 assicuri l'insegnamento in parola nel quadro delle finalità della scuola, onde la religione va insegnata a scuola ed agli alunni e non fuori dell'orario curriculare, ovvero semplicemente nei locali della scuola a ragazzi in età scolare. La collocazione dell'insegnamento non sarebbe quindi a margine o in appendice all'orario delle lezioni, ma dovrebbe formarne parte integrante, in sintonia con l'esplicito riconoscimento legislativo dei valore della cultura religiosa e della coincidenza dei principi del cattolicesimo con parte dei patrimonio storico italiano.

Pertanto l'organizzazione dell'insegnamento precederebbe logicamente il momento della scelta e ne prescinderebbe, non potendo essa dipendere, come un corso privato di catechesi, dall'impulso del singolo. L'impostazione di tale organizzazione in termini di non-discriminazione comporterebbe la necessità di assicurare la parità di trattamento tra avvalentisi e non; di qui l'importanza dell'Intesa di cui al d.P.R. 16 dicembre 1985, n. 751.

Dal principio di laicità sancito da questa Corte deriverebbe poi l'impossibilità di concepire un insegnamento religioso impartito in modi tali da scoraggiare chi decida di avvalersene: in questi ultimi termini andrebbe infatti inquadrata l'alternativa di un'ora di "libertà" (che incoraggerebbe di fatto il disimpegno), laddove i diritti dei non avvalentisi non verrebbero all'opposto vulnerati dalla mancanza della facoltà di assentarsi da scuola.

In conclusione la scuola resterebbe unitaria anche in presenza dell'esercizio di opzioni diverse e, ove queste riguardino il desiderio di non avvalersi dell'insegnamento religioso, non per questo possono tradursi in una riduzione del tempo-scuola, già individuato legislativamente in quanto necessario alle finalità educative.

6.- Le parti private escludono anzitutto che il Pretore abbia sottoposto alla Corte una richiesta alternativa d'interpretazione, richiamando viceversa la chiarezza della questione concernente l'illegittimità di un obbligo di presenza passiva imposto ai non avvalentisi.

Nel merito la difesa, riportando la motivazione della sentenza n. 203 del 1989 più volte citata, ricorda come le precedenti circolari ministeriali avessero degradato l'insegnamento religioso da facoltativo ad opzionale, sì che a seguito della decisione della Corte sarebbe dovuta risultare pacifica la collocazione dell'insegnamento dello stesso al di fuori dell'orario obbligatorio.

In effetti la Camera dei deputati, con la risoluzione del maggio 1989, avrebbe preso atto dell'assenza di una disciplina positiva atta a regolare l'attività degli alunni non avvalentisi. Tale ' vuoto sarebbe stato riempito - a parere delle parti - dalle circolari ministeriali n. 188 e n. 189 del 1989, sostanzialmente volte a riproporre lo schema dell'opzione alternativa, anche se in esse non é mai esplicitamente affermato l'obbligo da parte dei non avvalentisi di. effettuare la scelta tra le diverse attività offerte.

La giurisprudenza amministrativa ed ordinaria avrebbe invece in prevalenza ritenuto insussistente l'obbligo di restare comunque a scuola, traendo, sia pure con diverse ottiche, tale conclusione dalle affermazioni di questa Corte (che legittimerebbero la qualificazione dell'insegnamento religioso come insegnamento in più).

Nel nostro ordinamento scolastico - rileva poi la difesa - non esiste un orario obbligatorio di permanenza a scuola, ma un orario obbligatorio di attività didattiche, sì che l'esonero da un insegnamento esclude l'obbligo di presenza. Parimenti pacifica sarebbe l'esistenza di un tempo-scuola differenziato (orari flessibili e diversificati, tempo normale o prolungato, ecc.) non uniforme ma viceversa sempre corrispondente agl'insegnamenti che si frequentano.

In conclusione l'obbligo di permanenza dei non avvalentisi non potrebbe essere riguardato come garanzia di non discriminazione per chi sceglie l'insegnamento (il quale esercita viceversa un diritto, garantito dallo Stato ed organizzato a spese della collettività) e la sua esclusione parrebbe il logico corollario della sentenza n. 203 del 1989, la quale, a parere delle parti private, non può aver sanzionato l'illegittimità dell'insegnamento alternativo obbligatorio per poi legittimare lo "studio individuale" ovvero altre forme di presenza.

 

Considerato in diritto

 

1. Il Pretore di Firenze, con ordinanza del 4 maggio 1990 (R. O. n. 477 del 1990), in riferimento agli artt. 2, 3, 19 e 97 della Costituzione, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121, e del punto 5, lettera b), numero 2, del relativo Protocollo addizionale, per duplice discriminazione negativa derivante dalla collocazione dell'insegnamento di religione cattolica nell'ordinario orario delle lezioni ai non avvalentisi, sia in quanto obbligati a rimanere inattivi nella scuola durante l'insegnamento della religione cattolica, sia per la riduzione di altra attività didattica per lo spazio temporale riservato al detto insegnamento.

2. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, eccepisce nell'atto di intervento la inammissibilità della questione per due motivi:

a) non prendendo posizione il Pretore rimettente in ordine alla interpretazione delle norme denunciate, non risulta quale sia la rilevanza della questione nel giudizio a quo;

b) versando la doglianza di parte sull'assetto organizzatorio derivante da circolari ministeriali, e dunque in materia di competenza del giudice amministrativo, risulterebbe difetto di giurisdizione del Pretore rimettente.

La prima eccezione e superabile se si considera che il petitum mira ad ottenere una più ampia individuazione della portata del concetto di <<stato di non obbligo>> degli studenti non avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica, con conseguenze circa la legittimità del regime di non discriminazione introdotto dall'Amministrazione della pubblica istruzione.

Quanto alla seconda eccezione, questa Corte ribadisce che, <<versandosi in materia di diritto soggettivo, qual e il diritto di avvalersi o di non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica, non e contestabile la giurisdizione del giudice ordinario>> (sentenza n. 203 del 1989).

3. Ferma restando la ratio di quella sentenza, nel senso che <l'insegnamento di religione cattolica, compreso tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con pari dignità culturale, come previsto nella normativa di fonte pattizia>>, non è causa di discriminazione e non contrasta- essendone anzi una manifestazione col principio supremo di laicità dello Stato, il thema decidendum in ordine alla questione ora sollevata si circoscrive attorno alla portata dello <<stato di non- obbligo>> degli studenti che scelgono di non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica.

Come stabilito dalla sentenza n. 203 del 1989, <<La previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell'insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l'una e l'altro lo schema logico dell'obbligazione alternativa [...1.

Per quanti decidano di non avvalersene l'alternativa e uno stato di non-obbligo>>.

Per corrispondere al non-obbligo, l'Amministrazione ha predisposto, con circolari n. 188 del 25 maggio 1989 e n. 189 del 29 maggio 1989, moduli sia per la scelta di avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica sia per la scelta ulteriore, da parte dei non avvalentisi, di: a) attività didattiche e formative; b) attività di studio e/o di ricerca individuali con assistenza di personale docente; c) nessuna attività, che l'Amministrazione interpreta come libera attività di studio e/o ricerca senza assistenza di personale docente.

E' evidente che tale modulazione di scelta nell'intento dell'Amministrazione aveva per fine la realizzazione di un contenuto liberamente voluto così da non contraddire ma anzi fedelmente tradurre lo <<stato di non-obbligo>>.

Per coloro tuttavia che non esercitino nessuna delle tre scelte proposte sorge questione se lo <<stato di non-obbligo>> possa avere tra i suoi contenuti anche quello di non presentarsi o allontanarsi dalla scuola.

4. Occorre qui richiamare il valore finalistico dello <<stato di non obbligo>>, che è di non rendere equivalenti e alternativi l'insegnamento di religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall'esterno della coscienza individuale l'esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l'interiorità della persona.

Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole l'insegnamento di religione cattolica, l'alternativa è tra un si e un no, tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non avvalersene. A questo punto la libertà di religione è garantita: il suo esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun rapporto con la libertà di religione.

Lo <<stato di non-obbligo>> vale dunque a separare il momento dell'interrogazione di coscienza sulla scelta di libertà di religione o dalla religione, da quello delle libere richieste individuali alla organizzazione scolastica.

5. Alla stregua dell'attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo <<stato di non-obbligo>> può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall'edificio della scuola.

Quanto alla collocazione dell'insegnamento nell'ordinario orario delle lezioni, nessuna violazione dell'art. 2 della Costituzione è ravvisabile.

Questa Corte ha già sottolineato nella sentenza n.203 del 1989 che <<l'insegnamento della religione cattolica sarà impartito, dice l'art. 9 (scil. della legge 25 marzo 1985, n. 121) nel quadro delle finalità della scuola", vale a dire con modalità compatibili con le altre discipline scolastiche>>.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e del punto 5, lettera b), numero 2, del relativo Protocollo addizionale, sollevata, in relazione agli artt. 2, 3, 19 e 97 della Costituzione, dal Pretore di Firenze con l'ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 gennaio 1991.

 

Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA.

 

Depositata in cancelleria il 14 gennaio 1991.