dalla Luna

 

Euro sì o Euro no?

Astolfo sulla Luna,  23.5.2014


Questo fine settimana ci saranno le elezioni europee e il dibattito italiano fra gli estimatori ed i detrattori dell’Euro – tralasciando per carità di patria il crescendo di minacce ed improperi – ha caratterizzato tutta la campagna elettorale. Se ne sono sentite di tutti i colori, non tutte giustificate dalla complessità del caso, tante da rendere il dibattito piuttosto confuso e inconcludente. Forse un minimo di inquadramento storico potrebbe aiutare a porre il problema in modo corretto. Per evitare di risalire ad Adamo ed Eva, può essere opportuno partire dall’inizio degli anni ’80, quando divennero leader nei paesi anglosassoni politici sostenitori del cosiddetto neoliberismo. Contemporaneamente accelerarono decisamente due fenomeni economici che erano comparsi nel secondo dopoguerra, ossia l’internazionalizzazione delle imprese e la globalizzazione finanziaria. Questi ed altri fattori nel giro di un decennio portarono – come è noto - alla disgregazione del blocco sovietico, al quale avevano fatto direttamente o indirettamente riferimento diversi paesi del cosiddetto terzo mondo. Anche a causa di tutto ciò la concezione neoliberista, con la nascita del WTO nel 1995, si è estesa a livello planetario.

Per restringere l’analisi al Vecchio Continente, in relazione a questa visione dell’economia è utile tornare indietro di 10 anni, al 1985, quando le trattative sull’Atto Unico Europeo finirono per vincolare i 12 paesi firmatari al completamento del mercato interno entro il 1992. Ciò significò accettare le cosiddette quattro libertà di circolazione, in particolare quelle relative ai fattori di produzione, lavoro e capitale. A questo punto è bene chiarire che in un modello standard a perfetta mobilità di capitali, questi circolano in base ai differenziali fra i tassi reali di interesse, fuggendo dai paesi che li remunerano poco per spostarsi in quelli dove la loro remunerazione è migliore. Se si pone mente alla crisi valutaria italiana dell’autunno nero 1992, essa fu appunto scatenata dalla speculazione internazionale che – nonostante la Banca d’Italia avesse fissato il tasso di sconto al 15 % - continuò a vendere attività denominate in lire provocando una caduta del cambio valutario dell’ordine del 20 % con la conseguente sospensione a tempo indeterminato dal Sistema Monetario Europeo della nostra valuta.

Se la svalutazione della lira dette indubbiamente ossigeno all’export italiano, rischiò di provocare l’ennesima fiammata inflazionistica, scongiurata dalla politica rigidamente restrittiva dei governi dell’epoca (è passata alla storia la maximanovra da 93 mila mld del “dottor sottile”). La semplice rievocazione di questi fatti ci fa capire una cristallina verità sulle cosiddette svalutazioni competitive: convengono a chi esporta perché le imprese nazionali possono fare concorrenza “sleale” ai produttori esteri, ma se i prezzi più bassi non corrispondono a miglioramenti di produttività, i benefici dureranno poco, fino a quando i maggiori costi di produzione, dovuti nel caso italiano soprattutto alle materie prime importate, non costringeranno ad adeguare i prezzi di vendita. Viceversa, le imprese che producono per il mercato interno godranno della rendita creata dall’aumento dei prezzi delle merci importate in termini di valuta locale, e potranno utilizzarla per ritoccare i loro prezzi e/o per evitare di migliorare qualitativamente i loro prodotti/servizi. Per evitare questo scenario, il governo può impedire la spinta inflazionistica, magari con una manovra restrittiva come quella succitata, che rimase tristemente famosa perché finì per danneggiare pesantemente le famiglie più povere.

Tornando agli eventi storici, dopo che il referendum danese del 2 giugno 1992 aveva respinto di stretta misura il Trattato di Maastricht, ci volle un anno per riprendere il cammino verso la sua effettiva applicazione, quando nel giugno 1993, una seconda consultazione del popolo britannico produsse il suo assenso allo storico trattato: quest’ultimo, se da un lato – come abbiamo già ricordato – completava l’integrazione economica, dall’altra avrebbe dovuto consolidare la collaborazione politica in prospettiva confederale. A questo punto della costruzione europea entra in gioco la moneta unica, rispetto alla quale però i due paesi più euroscettici - assieme alla Svezia nel frattempo entrata in un Unione Europea non più legata al blocco occidentale - ottengono il mantenimento della sovranità monetaria.

La domanda ora è: come mai questi paesi restano fuori dall’Eurozona pur essendo in regola con i criteri di convergenza, mentre altri paesi, come l’Italia e poi la Grecia, vengono fatti rientrare in essa con una deroga a tali criteri? La risposta non è difficile, se si pensa agli effetti della mobilità dei capitali che abbiamo ricordato sopra, sia dal punto di vista teorico che nelle esemplificazioni storiche: paesi che sono costretti ad allentare il vincolo di bilancio con l’inflazione e/o l’indebitamento rischiano, restando fuori dall’Eurozona, di finire in una spirale inflazione/svalutazione che li porterebbe in breve tempo al default. Paesi che invece hanno maggiori gradi di libertà sul vincolo di bilancio, vuoi perché partono da un livello di welfare più avanzato e diffuso, vuoi perché le interrelazioni economiche e finanziarie con l’Eurozona rappresentano una minor quota del totale, possono governare più agevolmente il loro rapporto valutario con l’Euro.
Se le cose stanno così, è facile prevedere gli effetti asimmetrici che il Patto di stabilità e sviluppo, siglato ad Amsterdam nel 1997, ha prodotto in Eurolandia, in particolare l’incapacità di superare gli squilibri cosiddetti strutturali da parte dei paesi più deboli dell’area Euro, la richiesta di riequilibrio unilaterale dello sbilancio fra paesi creditori e debitori, che ha portato alla drammatica crisi greca del 2010, fino all’imposizione del cosiddetto fiscal compact in chiave assurdamente antinflazionistica. Questo patto di bilancio europeo, firmato nel marzo 2012, chiede ai paesi membri Ue – esclusi il Regno Unito e la Repubblica Ceca che non vi hanno aderito - di rispettare vincoli di bilancio ancor più stringenti del precedente patto di stabilità, in particolare per i paesi con debito superiore al 60 % del PIL, come l’Italia.

A tal proposito, qualcuno ha ipotizzato che il nostro governo, quando fu introdotto l’Euro, abbia ottenuto la deroga al criterio di cui sopra in cambio della sopravvalutazione della lira nel calcolo dei rapporti di parità con la nuova valuta: in realtà erano i nostri industriali che chiedevano una parità equivalente a 1030/40 per marco, mentre all’Ecofin del novembre ‘96 il blocco tedesco/olandese voleva 925 lire per marco; alla fine Ciampi spuntò quota 1000 lire, a fronte di un cambio di mercato che oscillava intorno a 985.

Sia come sia, l’adesione al patto di bilancio europeo è la condizione per poter accedere ai prestiti previsti dal Meccanismo Europeo di Stabilità quando le passività finanziarie di un paese si trovano sotto attacco speculativo. Se le cose stanno in questo modo, non si capisce perché il dibattito si sia incentrato sull’Euro, quando la causa delle politiche ingiustificatamente restrittive imposte ai paesi deboli dell’Unione Europea è un’altra. A riprova di quanto si dice, è sufficiente osservare che una forte resistenza contro le istituzioni comunitarie si trova anche in paesi, come l’Ungheria o la Polonia, che hanno aderito al fiscal compact, ma non hanno adottato all’Euro.

A questo punto non è forse un caso che dal paese più martoriato dalle cure della troika viene l’unica vera novità nel panorama politico europeo: qualcuno che ha il coraggio di dire che non è nella scelta Euro sì/Euro no che si trova la vera alternativa, quanto nell’utilizzare questa moneta - che ha creato un’importante area valutaria a livello planetario - per altri scopi, rivedendo il fiscal compact anche in chiave di una vera armonizzazione fiscale; si tratta di evitare che, in nome degli interessi finanziari di poche centrali speculative mondiali, l’Unione Europea non calpesti gli inviolabili diritti umani, e magari piano piano cerchi di recuperare la prospettiva federale originaria.

Trento, 23/5/14                                                     
 

Astolfo sulla Luna


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