dalla Luna

 

Stato di diritto e stato del diritto,
ovvero i perché di una scelta di politica scolastica

Astolfo sulla Luna,  2.9.2013

 

Come è noto, da diversi anni il ruolo dell’insegnamento delle scienze sociali nei curricoli scolastici del nostro paese è oggetto di forte dibattito nell’ambito delle diverse correnti intellettuali e degli schieramenti politici: come risultato del confronto ideologico e politico si è avuto un ridimensionamento generale di tale insegnamento, che negli ultimi anni ha assunto un ritmo accelerato.

Senza voler entrare nel merito del dibattito, si ricordano alcuni episodi di tale ridimensionamento: il passaggio dal vecchio indirizzo amministrativo, che prevedeva tre intere cattedre per le discipline professionalizzanti (ragioneria, tecnica, diritto ed economia), all’IGEA (indirizzo giuridico economico amministrativo) che unificò ragioneria e tecnica nell’unica disciplina economia aziendale segnò l’inizio dell’arretramento, motivato dal passaggio di tali discipline dall’ambito specifico professionalizzante a quello più generale formativo, di educazione alla cittadinanza. In tale circostanza veniva introdotto l’insegnamento del diritto e dell’economia nel biennio degli indirizzi sperimentali (cd. Progetto Brocca) dei licei, determinando un travaso dalle scienze economico aziendali alle scienze sociali in senso stretto che modificava l’equilibrio interno fra le stesse.

La graduale scomparsa dell’IGEA sostituito dal nuovo indirizzo amministrazione finanza e marketing nell’ambito del settore economico degli istituti tecnici (i vecchi ITC), previsto dalla “riforma Gelmini” ha tagliato in media – con la riduzione del monte ore settimanale - il 10 % dell’orario, senza considerare le variazioni del quadro orario fra le diverse articolazioni (relazioni internazionali e sistemi informativi, i vecchi programmatori). Ma dove la Gelmini ha colpito duramente è stato nel settore tecnologico degli istituti tecnici e professionali (i vecchi ITI e IPS), dai quali l’insegnamento delle scienze sociali è quasi del tutto scomparso. Last but non least, il “riordino” Gelminiano ha eliminato da tutti i tipi di liceo il progetto Brocca. L’unico liceo nel quale sopravvive al biennio tale insegnamento è il liceo delle scienze umane (le vecchie magistrali), al triennio anche nell’opzione economico sociale quelle rare volte in cui viene attivata: detto per inciso, si tratta del misero risultato dell’animato dibattito sull’istituzione del liceo economico che ha attraversato tre decenni di politica scolastica, fino all’ultima fase, quando addirittura la Confindustria si oppose alla licealizzazione degli istituti tecnici prevista dalla “riforma Moratti” temendo di perdere la preziosa formazione gratuita dei futuri quadri tecnici.

Per concludere questa rapida introduzione sullo stato dell’insegnamento del diritto e dell’economia nel nostro paese, giova ricordare che dall’anno prossimo andrà a regime la “riforma Gelmini”, quindi scompariranno – a parte le eccezioni settoriali di cui sopra - le ultime classi in cui tali discipline potrebbe essere materia d’esame.

Passando ora ad altro, sarà bene domandarsi il motivo di tale scelta di politica scolastica. Sembrerebbe infatti che lo studio delle scienze sociali debba essere riservato a quelli che prematuramente decidano di avviarsi a professioni impiegatizie o a quelli che, da diplomati, vogliano accedere alle professioni liberali.

Proviamo invece ad analizzare con gli strumenti del diritto e dell’economia politica ed aziendale alcuni recenti fatti politici e giudiziari per vedere se tale scelta non abbia altri scopi.

Iniziamo dalla politica economica: Grillo nel suo blog scrive “Dal 2015 interverrà il fiscal compact che ci costringerà a ridurre di un ventesimo all’anno il nostro debito pubblico, con manovre da 50-60 miliardi di euro”, quindi “andare oltre il 2015 significa mettere sul tavolo temi ben più complessi di come cancellare l’IMU e introdurre la Service Tax. A questi temi dovrebbe guardare … Letta quando parla di crescita italiana”. Due osservazioni, la prima sulla forma, la seconda sulla sostanza: l’ex comico, paladino della democrazia diretta, gestisce in regime di monopolio assoluto un mezzo di informazione di ultima generazione i cui contenuti rimbalzano immediatamente sui media di prima e seconda generazione (giornali e TV). Quanti altri soggetti politici sono dotati di analogo potere informativo?

Nella sostanza, aldilà degli epiteti “anticonvenzionali” che Grillo appioppa ai suoi avversari politici, il messaggio è corretto (pur sottostimando l’entità della manovra nel 2015, lo 0,05% degli oltre 2000 miliardi di Euro dell’attuale debito pubblico italiano fa circa 100 miliardi di Euro), nel senso che per la crescita economica l’orizzonte temporale dovrebbe essere il lungo periodo, e non una manovra di corto respiro, come appunto la cancellazione dell’IMU sulla prima casa senza la contestuale indicazione della copertura economica di tale scelta di politica fiscale. Il corretto contesto di riferimento è la L. Cost. n. 1/12 che – nel quadro della riforma dell’art. 81 della Costituzione tesa ad introdurre i principi del cd. Fiscal compact – recita testualmente “Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.” Per chiarire, mentre la cancellazione dell’IMU è norma già in vigore, l’introduzione della Service Tax (forse si chiamerà Tares) dovrà essere oggetto di apposita norma futura, che fra l’altro stabilisca in che modo verrà assorbita anche la Tarsu, imposta sui rifiuti. A prescindere dal mancato rispetto del principio costituzionale appena citato, l’accordo del 28 agosto nella coalizione di governo ha modificato la platea dei contribuenti dei tributi in oggetto: è stato infatti già segnalato che si passerà da un’imposta sulla proprietà immobiliare ad una sull’uso degli immobili, segnatamente gli inquilini.

Ma pochi hanno rilevato che la manovra fiscale in parola è contraria ad un altro principio costituzionale, quello che sancisce la progressività del nostro sistema tributario (art. 53 Cost. secondo comma). È semplice infatti notare che mantenere l’IMU per le categorie catastali A8 ”ville” o A1 “immobili di pregio” ed eliminarla per la categoria A7 “villini” o A2 “abitazioni civili” crea sperequazioni basate unicamente su criteri formali (è sempre chiara la distinzione fra una villa ed un villino, magari ristrutturato come quello dell’on. Brunetta?); inoltre è differente possedere un’abitazione civile di 70 ed una di 400 mq. La prima non pagava già prima l’IMU grazie al sistema della detrazione prima casa, il proprietario della seconda potrà invece risparmiare un paio di migliaia di euro. Chiedo scusa al paziente lettore che provi un certo fastidio per i numeri, ma essi sono necessari quando si discute di scienza delle finanze ed economia aziendale, discipline ormai riservate ai sempre meno richiesti “ragionieri”. Chiunque, a prescindere dal grado di familiarità con le scienze sociali, dovrebbe capire che i risparmi conseguiti dai contribuenti più ricchi, in quanto proprietari di patrimoni più consistenti, verranno coperti con un maggior carico tributario per tutti i contribuenti, il che è esattamente l’opposto del principio di progressività delle imposte, secondo il quale il carico tributario cresce in modo più che proporzionale alla crescita della ricchezza.
Non va dimenticato infine che, mentre il governo si affanna nel cercare la copertura per il mancato introito dell’IMU, si avvicina la scadenza del primo ottobre, quando le aspettative su una ripresa dei consumi verranno congelate dal previsto aumento dell’IVA al 22% (a suo tempo promesso per disciplinare il bilancio pubblico, come dal novellato art. 81 Cost. sopra citato). Non è questa la politica coraggiosa e lungimirante che ci si potrebbe aspettare dal giovane capo di un governo sostenuto da ¾ dei parlamentari.

Dopo aver analizzato questioni di politica economica e tributaria che riguardano tutti i cittadini, passiamo ora alla sfera giudiziaria, in particolare ai problemi di un unico cittadino. La motivazione della recente sentenza della Corte Costituzionale che ha inappellabilmente condannato il senatore Berlusconi per frode fiscale, sviluppa il seguente ragionamento: il suddetto ha ideato in passato il meccanismo del giro di diritti televisivi per ridurne la base imponibile e, dopo l’assunzione di incarichi politici, “ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nei posti strategici i soggetti da lui scelti e che continuavano a occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione”. Viene perciò concluso che è “inverosimile” che egli sia stato truffato per 20 anni “senza accorgersene”. In altre parole, i giudici costituzionali sostengono che Berlusconi, da oculato imprenditore, avrebbe dovuto intervenire sulle scelte dei suoi manager per evitare che costoro continuassero a manifestare un comportamento fraudolento da lui stesso ideato quando non aveva ancora cariche pubbliche, comportamento che è chiaramente rischioso per la salute delle sue imprese, oltreché palesemente illegittimo.

È interessante notare che, all’indomani del deposito della motivazione di cui sopra, gli avvocati difensori sostenevano che si tratta di una sentenza con una motivazione “inesistente” mentre qualche esponente del suo partito avanzava la solita ipotesi del “teorema del non poteva non sapere”. Ora, tali controdeduzioni non reggono di fronte ad una semplice analisi giuridica: dire che è impossibile che a un uomo dell’esperienza di Berlusconi potesse sfuggire un comportamento truffaldino - cosa che consiste nell’ottenere un vantaggio ingiusto (l’evasione fiscale) con artifici o raggiri (le false fatturazioni) – perpetrato per lungo tempo contro di lui, non sembra una “motivazione inesistente”, come sostengono superficialmente i suoi avvocati, casomai una motivazione errata, di cui bisognerebbe però trovare la fallacia; similmente, dubitare del cosiddetto “teorema del non poteva non sapere” come fanno i membri del Pdl, significa in pratica dare dell’incompetente al proprio leader, in quanto vuol dire asserire che il fondatore di un impero mediatico - la cui quota di maggioranza è ancora saldamente nelle sue mani - non è in grado di capire da dove derivino i cospicui profitti conseguiti nel corso degli anni.

D’altronde il diretto interessato si difende – utilizzando in tempo reale le proprie reti televisive - definendo la sentenza “allucinante”. Sul termine utilizzato potremmo essere d’accordo se invece che essere usato per qualificare la sentenza, esso riguardasse il fatto che un condannato in via definitiva si permetta di apostrofare in diretta i vertici dei poteri giurisdizionali del nostro paese. Va precisato che tale sentenza è passata in giudicato ossia è divenuta eseguibile, con la condanna del politico in parola ad una pena principale di tipo detentivo (eventualmente commutabile) e ad una pena accessoria che consiste nell’interdizione temporanea dai pubblici uffici (la cui durata dovrà essere rideterminata). Piuttosto si può essere d’accordo in linea di principio sul fatto che un organo costituzionale, nel caso il Parlamento, possa ricorrere in via diretta alla Corte Costituzionale contro tale pena accessoria, eccependo l’illegittimità costituzionale della Legge che regolamenta i casi di incompatibilità e di decadenza dall’ufficio di parlamentare.

Tuttavia, a proposito della giunta per le autorizzazioni al Senato che prossimamente dovrà pronunciarsi su tale pena accessoria, ossia sull’eventuale decadenza – giusta la legge recentemente approvata dal Parlamento - del Berlusconi medesimo, costui si è così espresso: ”Se qualcuno pensasse di eliminarmi con un voto si sarebbe davanti ad una ferita profonda della democrazia”. È sorprendente che un signore a suo tempo laureatosi con lode in giurisprudenza ricada in un errore direi clamoroso, raro anche fra i ragazzini quindicenni a cui insegno diritto: la democrazia è un regime politico che consiste, quando è indiretta o rappresentativa, nell’essere governati da individui eletti periodicamente dal popolo (dèmos per l’appunto in greco). La democrazia può essere anche diretta, quando il popolo si esprime senza la mediazione di rappresentanti su una determinata questione (es. le riforme costituzionali, la legge elettorale, non in Italia i trattati internazionali). Il voto di cui parla il senatore Berlusconi riguarda invece l’applicazione a sé medesimo di una legge dello Stato, secondo il principio di legalità, che prevede che tutti, anche gli stessi poteri dello Stato siano soggetti alla legge: è questa la definizione di Stato di diritto, storicamente affermatosi come Stato liberale.
Dunque l’errore è consistito nel confondere la nozione di regime democratico con quella di Stato di diritto; c’è di più, poiché lo Stato di diritto preesiste alle democrazie, esso può sussistere anche senza democrazia, magari appunto col regime liberale di cui il suddetto si dice campione, mentre non è concepibile una democrazia senza Stato di diritto, in quanto essa degenererebbe, come notava Aristotele 25 secoli or sono, nella demagogia. Giàm la demagogia, quella “pratica politica mirante ad ottenere il consenso popolare facendo mostra di condividerne i malumori e le rivendicazioni, anche irragionevoli”. Ma allora il nostro cerchio si chiude; ecco i motivi della scelta di politica scolastica di cui ci siamo occupati in questo lungo articolo: tenere all’oscuro il popolo riguardo ai principi delle scienze sociali, in modo che non sappia distinguere quali rivendicazioni sono ragionevoli e quali non lo sono, in quanto ad esempio impossibili da ottenere. In tal modo chi controlla i mezzi di informazione di massa potrà gestire il consenso politico nel breve periodo, anche a costo di portare il popolo e le istituzioni che lo governano verso l’autodistruzione.



2 set. 13


 
 

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