L’Italia è la seconda meta preferita, dopo la Gran Bretagna, dagli americani che studiano all’estero. Un ragazzo su dieci sceglie una nostra università. Il mito della Dolce Vita ieri e della Grande Bellezza oggi continua a mietere vittime. Lo dice «Open Doors», annuale rapporto sulla mobilità degli studenti in entrata e uscita dagli Stati Uniti.
Finalmente una buona notizia, verrebbe da dire. Ma è proprio così? Oggi che la migrazione di studenti da un Paese all’altro è un fenomeno globale da 4 milioni e mezzo di persone, non sorprende che l’America sia non solo il principale polo d’attrazione ma a sua volta anche un «esportatore» di giovani talenti (290 mila l’anno scorso). E per i ragazzi americani la meta naturale è e resta l’Europa: Inghilterra, Italia, Spagna, Francia, Germania e Irlanda insieme accolgono poco meno della metà degli studenti Usa all’estero. Ma se si guarda al flusso di stranieri in generale, mentre l’Inghilterra ne attrae 427 mila l’anno, la Francia 270 mila e la Germania 210 mila, l’Italia è ferma a 77 mila (dati Unesco). Da tempo è in gioco una lotta senza esclusione di colpi per chi si accaparra la fetta più grossa di capitale umano altamente qualificato. In palio c’è la competitività stessa di ciascun Paese. Lo sa bene l’America. Secondo le stime del dipartimento del Commercio, gli 886 mila giovani cinesi, indiani, sudcoreani, brasiliani e mediorientali ospiti (paganti) delle università Usa valgono 27 miliardi di dollari l’anno. Per non parlare delle ricadute successive in termini di contributi alla ricerca.
E l’Italia? L’Italia ha ottime università ma fatica ad attrarre talenti. Anche quegli atenei che promuovono corsi in inglese, scontano gli infiniti ostacoli burocratici e logistici (dai documenti di soggiorno agli affitti in nero) che frenano l’afflusso di studenti e prof. Per cambiare le cose, bisognerebbe che il governo mettesse finalmente in campo una politica attiva sull’immigrazione dei talenti. Iniziando, dopo anni di tagli, a mettere mano al portafoglio.