La vana demagogia dei corsi "globish"

 dal blog di Giorgio Israel, 26.7.2014

Lungi da noi avercela con Gianna Fregonara ma l’impressione che si lanci a capofitto sulle questioni dell’istruzione con scarsa riflessione e molti pregiudizi – tutti coerenti con la linea del Corriere della Sera – è troppo forte. Fregonara si è già segnalata ripetutamente per una difesa d’ufficio dei test e dei quiz a costo di fare una brutta figura, senza argomenti e semplicemente accusando chi non vuole questa metodologia di selezione di essere “contro il merito e la valutazione”.

La vicenda dei test di selezione per la facoltà di medicina è finita in modo talmente squallido che ci sarebbe da nascondersi per aver difeso questo sistema indecente. Il che non significa che non si possa, e anzi non si debba, selezionare: ma esistono altri sistemi, come quello francese, del tutto rispettabili, che producono una selezione fino all’80% degli iscritti a medicina, che possono essere studiati e imitati.

Niente da fare: o si quizza o si è nemici della valutazione. Un monumento alla discussione razionale.

Oggi, sul Corriere della Sera, Fregonara ci riprova con la faccenda dell’insegnamento in lingua inglese. La vicenda è nota. Alcune istituzioni, come il Politecnico di Milano, non hanno trovato di meglio che cercare una via d’uscita alla marginalità internazionale crescente delle università italiane rendendosi accattivanti con la proposta di insegnare i corsi in inglese.

È il solito corto circuito demagogico per venir fuori da una crisi che ha cause molto gravi e profonde. Tanto per dirne una, il sistema universitario italiano non offre infrastrutture di alloggio agli studenti stranieri, non ha praticamente campus, è carente persino sul piano delle mense e delle aule. Altro che inglese… Basterebbe un minimo di analisi per rendersi conto che la maggioranza degli studenti stranieri che viene in Italia non lo fa di certo per sentirsi parlare in inglese ma, al contrario, per apprendere l’italiano. Non sarebbe il caso di raccogliere le penose-comiche testimonianze di molti docenti costretti a fare lezioni in inglese mentre la stragrande maggioranza del pubblico è costituito da studenti di aree non anglofone, per cui tutto si risolve in una sceneggiata degno di una gag Totò-Peppino?

E poi la stessa Fregonara ammette che l’inglese in gioco è il solito globish, un inglesaccio di terza categoria, spesso pronunciato in modo penoso, consistente di qualche centinaio di parole e intessuto di strutture verbali primitive? Bisognerebbe assistere al patetico sforzo di docenti, costretti dall’istituzione a fare i corsi in globish, che si affannano a tirar via i 45 minuti di una lezione impoverita per rendersi conto di quanto questa trovata dei corsi in inglese sia senza capo né coda.