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          Temi per la Costituente della Scuola.  dal blog di Max Bruschi, 3.1.2014 Luigi Einaudi, nel commentare a caldo la riforma Gentile, aveva sottolineato come gli “esami” fossero un punto capitalissimo di ogni ordinamento. Ma l’accenno alle prove formali non si comprende appieno, resta monco, oscuro, contraddittorio da parte di un avversatore, quale Einaudi fu, del valore legale dei titoli di studio, e quasi direi burocratico, senza la spiegazione del concetto, contenuto nella frase successiva, davvero cardine: “Ogni perfezione di struttura è vana se gli studenti non sono invitati a studiare bene”. Sembra banale, ma non lo è. E forse anche le considerazioni seguenti sembreranno banali, poco “scientificamente” documentate. Ma preferisco l’essenziale, perché chi conosce i nomi dei protagonisti del dibattito e delle “auctoritas” potrà leggerli in filigrana. E chi non li conosce (perché non è il suo mestiere), potrà liberamente seguire il filo, spero, logico, del ragionamento. Alquanto, consentitemelo, “arrabbiato” e fuori dalle righe. 
			Prima considerazione. Da lustri la “mission” dell’istituzione 
			scolastica è messa in dubbio, innanzitutto, fatte le dovute ed 
			eroiche eccezioni, dagli stessi “operatori”, in maniera più profonda 
			di quanto mai fosse successo in precedenza. Punto di snodo, il ‘68 e 
			la celeberrima “Lettera a una professoressa”. E l’insorgere, in un 
			dibattito pubblico a dire la verità alquanto asfittico, di una serie 
			di dicotomie. La dicotomia tra standardizzazione e 
			personalizzazione. Tra centralismo e autonomia. Soprattutto, tra 
			scuola selettiva e scuola inclusiva. Con una netta prevalenza della 
			seconda, sia pure con varie declinazioni più o meno realisticamente 
			mediatorie (ultima, “la scuola di tutti e di ciascuno”). E con il 
			rischio, sempre presente (soprattutto nel primo ciclo) di una 
			pesante deriva che, in nome dell’egualitarismo, cancella le 
			differenze, le specificità, perché no, le eccellenze. 
			Si dirà. “E i BES? E i migranti? E… ???”. E io dirò: e cosa c’entra? 
			Al di là del fatto che occorrerebbe una bella pulizia terminologica 
			(ma usare le parole a sproposito è proprio delle litanie…) e dire, 
			una volta per tutte, che
			
			il termine BES è OMNICOMPRENSIVO (ma l’insiemistica, a scuola, 
			si fa più? o ha fatto la fine del corsivo?) e sotto il suo ombrello 
			c’è il DSA, lo studente con disabilità (anche qui: l’espressione 
			“diversamente abile” è normativamente out), il migrante non 
			italofono (a proposito: la generazione non c’entra, se non 
			parzialmente: figli di migranti nati in Italia, se vivono in 
			situazioni “chiuse”, approdano a scuola con una conoscenza meno che 
			approssimativa della lingua italiana), come il “figlio del 
			flebotomo” (lo 
			Stardi che, un tempo, si rompeva la testa sui libri, oggi 
			compulsa i siti specializzati alla ricerca di un avvocato) o del 
			carcerato, o il carcerato stesso (quelle 
			difficili, splendide esperienze della scuola in carcere). 
			Seconda considerazione: la politica e (di rincalzo) 
			l’amministrazione rispondono sì, quando invece dovrebbero dire dei 
			sonori no, a tutte le attribuzioni di competenze estranee 
			all’istituzione scolastica. Lo dico brutalmente e senza dilungarmi. 
			La scuola deve fare la scuola. Punto. Il resto è un di più. Ma da 
			tempo stiamo invertendo i fattori: stiamo scambiando pietanza e 
			condimento. Abbiamo resistito al patentino per la moto, non so se 
			resisteremo all’educazione all’affettività cui, se durerà nel tempo, 
			farò quando sarà il momento obiezione di coscienza. 
			Terzo punto, ma a dire la verità, il primo per importanza. Le 
			famiglie e la società. E qui è lo snodo degli snodi. Gli organi 
			collegiali sono l’ultimo dei problemi. Il primo dei problemi è una 
			invasività genitoriale e sociale che troppo spesso ha ben poco a che 
			vedere con l’attenzione agli apprendimenti e si traduce, invece, in 
			una parossistica attenzione ai dettagli della vita scolastica (il 
			calendario, la festa di fine anno o il presepe a Natale…) quando non 
			a una tutela esasperata della propria progenie. Con le dovute, 
			inattese, eccezioni. Ho trovato più attenzione all’insegnamento in 
			una piccola comunità brianzola che in un prestigioso liceo nel 
			centro di Milano. Forse perché quelle famiglie del “contado” avevano 
			mantenuto qualcosa delle nonne, più che delle mamme, della mia 
			generazione, qualcosa che odora tanto di “mamme tigri” orientali, 
			scapaccioni inclusi…. Ecco, nessuna possibile ricostruzione del valore della scuola può prescindere dalla riscrittura di un “patto sociale” che inverta la marcia, prendendo esempio da quelle scuole, da quei docenti, dai quei presidi, da quelle famiglie e da quegli studenti che “resistono” e che credono ancora a una funzione di ascensore sociale (per il singolo e per il Paese) dell’istruzione, che se non è vissuta ed esperita giorno per giorno è vuota, ipocrita retorica. Alla Costituente chiedo un Kulturkampf. 
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