Per imparare non basta la tecnologia

Il vero guaio però è che la fascinazione dei nuovi strumenti digitali ha contribuito a spostare l’attenzione dai contenuti ai mezzi che li veicolano, attribuendo a questi ultimi una funzione catartica che non hanno

di Paolo di Stefano, Il Corriere della Sera 5.2.2014

Aderite incondizionatamente all’uso di Internet a scuola? Leggete il libro dello psichiatra tedesco Manfred Spitzer, il quale sostiene — com’è facile intuire dal titolo, Demenza digitale (Corbaccio) — che gli strumenti tecnologici, utilizzati in eccesso, finiscono per limitare la capacità di memorizzare, di concentrarsi, di socializzare. Tutte qualità che un individuo, specie se giovane, dovrebbe sviluppare. Siete scettici? Ascoltate Umberto Eco, quando dice che ha curato Encyclomedia, un’enciclopedia informatica, per favorire la memoria storica dei ragazzi, mettendo loro a disposizione cronologie indispensabili ai nativi digitali. Poi però è lo stesso Eco ad avvertire (in una lettera a suo nipote apparsa qualche settimana fa sull’Espresso) che sarebbe utile arginare il deserto mnemonico che avanza tornando alla vecchia tradizione, e cioè mandando a memoria «La Vispa Teresa», «La cavallina storna», «L’infinito». Senza abbandonare il Web, ma senza farne un mondo totalizzante. Nessuno ha ancora dimostrato, del resto, che i libri di carta siano inutili.

Il fatto che l’Italia è agli ultimi posti, come segnala l’Ocse, nella digitalizzazione scolastica non è un segnale di cui rallegrarsi. Ben vengano, anzi, le lavagne elettroniche. Il vero guaio però è che la fascinazione dei nuovi strumenti digitali ha contribuito a spostare l’attenzione dai contenuti ai mezzi che li veicolano, attribuendo a questi ultimi una funzione catartica che non hanno. L’equivoco, insomma, è credere che la scuola possa rinnovarsi solo adottando a tappeto iPad e ebook.

I genitori sanno bene che i loro figli imparano da soli, ben prima di arrivare a scuola, a maneggiare smartphone e tablet: non accade lo stesso per i libri. A scuola, semmai, i nativi digitali potrebbero apprendere un uso dosato e critico della Rete: ma si può chiedere anche questo ai docenti? Senza dimenticare che la scuola deve insegnare soprattutto altro, e magari, perché no, aprire spazi mentali alternativi a quelli consueti, in genere frequentati compulsivamente. La terza via, tra apocalittici e integrati, è quella dei prudenti. Non esagerare è sempre un ottimo consigli o.
 

 

Abito a Roma nei pressi di una scuola (medie e liceo), e all’inizio e alla fine delle lezioni la mia via si riempie di ragazzi. Mi capita così di ascoltare assai spesso le loro chiacchiere, gli scambi di battute. Ebbene, quello che mi arriva alle orecchie è una continua raffica di parolacce e di bestemmie, un oceano di turpiloquio. Praticamente, qualunque sia l’argomento, in una sorta di coazione irrefrenabile dalle loro bocche viene fuori ogni tre parole un’oscenità o una parola blasfema. Le ragazze - parlo anche di quattordicenni, di quindicenni - appaiono le più corrive e quasi le più compiaciute nel praticare un linguaggio scurrile e violento che un tempo sarebbe stato di casa solo nelle caserme o nelle bettole più malfamate.

A dispetto dunque di quanto vorrebbero far credere molti dei suoi scandalizzati censori, il lessico indecente e la volgarità aggressiva mostrati da Grillo e dai suoi parlamentari nei giorni scorsi non sono affatto un’eccezione nell’Italia di oggi. Sono più o meno la regola. Sostanzialmente, in tutti gli ambienti il linguaggio colloquiale è ormai infarcito di parolacce e di volgarità, come testimoniano quei brandelli di parlato spontaneo che si ascoltano ogni tanto in qualche fuori onda televisivo o tra i concorrenti del Grande Fratello . Siamo, a mia conoscenza, l’unico Paese in cui i quotidiani non esitano, all’occasione, a usare termini osceni nei propri titoli.
Non dico tutto questo come un’attenuante, tanto meno come una giustificazione. Lo dico solo come richiamo a un dato di fatto. È l’ennesimo sintomo dell’abbandono delle forme, della trasandatezza espressiva, della durezza nelle relazioni personali e tra i sessi, di un certo clima spicciativo fino alla brutalità che sempre più caratterizzano il nostro tessuto sociale. In una parola di un sottile ma progressivo imbarbarimento.

Il declino italiano è anche questo. Il degrado dei comportamenti, dei modi e del linguaggio ha molte origini, ma un suo fulcro è di certo il grave indebolimento che da noi hanno conosciuto tutte quelle istituzioni come la famiglia, la scuola, la Chiesa, i partiti, i sindacati, a cui fino a due-tre decenni fa erano affidati la strutturazione culturale e al tempo stesso il disciplinamento sociale degli individui. Era in quegli ambiti, infatti, che non solo si sviluppava e insieme si misurava con la realtà esterna e le sue asperità il carattere, ma veniva altresì modellata la disposizione a stare nella sfera pubblica e il come starci. Tutto ciò che per l’appunto è stato battuto in breccia in nome di ciò che è «spontaneo», «autentico», «disinibito», secondo una concezione della modernità declinata troppo spesso nelle forme del più sgangherato individualismo.

La modernità italiana ha voluto dire anche questo generale e cieco rifiuto del passato. Rifiuto di consolidate regole pubbliche e private, di un sentire civico antico, di giusti riguardi e cautele espressive, di paesaggi culturali e naturali tramandati. Di molte cose che da un certo punto in poi la Repubblica ha rinunciato ad alimentare e a trasmettere. Un filo rosso lega la rovina del sistema scolastico da un lato e dall’altro il turpiloquio sessista dei parlamentari grillini di oggi e dei guitti di sinistra di ieri contro le rispettive avversarie politiche, la dissennata edificazione del territorio da un lato e i tricolori sugli edifici pubblici ridotti a luridi stracci dall’altro, le condizioni della Reggia di Caserta e il nostro primato nelle frodi comunitarie. Ma quel filo rosso non ci piace vederlo: ed è così che la società civile italiana (a cominciare dai suoi deputati) è diventata per tanta parte un coacervo d’inciviltà.