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(N. Cianci)

Asfaltare l'avversario

di Nando Cianci, Scuola Slow 23.2.2014

  “Asfaltare” è parola che ricorre sempre più spesso nella comunicazione politica. Viene usata, solitamente, per indicare una vittoria schiacciante sull’avversario, un raderlo al suolo ricoprendolo virtualmente di bitume. Insomma: 

una riduzione al livello dei propri piedi che, com’è naturale, transiteranno poi su quell’asfalto. Per quanto venga usato metaforicamente, tale espressione contiene la volontà di umiliare l’avversario, di annullarlo.  

  Guardato dal punto di vista di chi lavora per la formazione di cittadini liberi, dotati di senso critico e responsabili (verso se stessi e verso la comunità) “asfaltare” l’avversario politico è espressione che incita al  regresso verso una dimensione che sta tra la passività del suddito e la passione cieca ed escludente (che esclude l’altro) di certi tifosi di certe curve di certi stadi. E’, in questo senso, la manifestazione dell’arrancare di politici, che non riuscendo a dar corpo ad idee e progetti (seppur ce l’hanno), rincorrono categorie sociali e singole individualità che «si muovono come se esistessero al mondo solo loro», come scrive Zagrebelsky nel suo ultimo libro (Fondata sulla cultura, Einaudi, p. 103).  Chi pensa che i propri interessi, e le proprie opinioni, abbiano comunque la preminenza su quelli degli altri avrebbe bisogno di politici che mostrassero, con l’esempio del proprio comportamento, come a tenere coesa una società è l’idea di un bene comune a cui tutti possono concorrere. In mancanza di ciò, l’altro modo per tenere uniti gruppi e individui frammentati  è quello di farli sentire branco, diffondendo l’idea che stare da una parte significa avere sempre e comunque ragione. A prescindere, avrebbe detto Totò. E, naturalmente, quando si ha ragione sempre e comunque, cioè a priori, discutere con gli altri non è necessario.  Anzi: è fastidioso.  Di più: gli altri, per il solo fatto di non stare dalla parte di chi ha ragione a priori, hanno qualcosa che non va. E vanno “asfaltati”.

    Per questa via, è ovvio, non si costruisce una società democratica, faccenda già di per sé assai complicata per la nota difficoltà di far coincidere le forme della democrazia con il suo sostanziale esercizio. Ma non si realizza nemmeno un minimo di civile convivenza, perché ne manca il presupposto fondamentale: l’ascolto dell’altro, il tentativo di capirne la ragioni. Per confutarle, se lo si ritiene, esponendo le proprie. Ma rimanendo fedeli ad un principio senza il quale non può darsi civile convivenza: si dialoga e si discute per capire, non per aver ragione.

    Non si tratta di quel generico “buonismo” che di tanto in tanto fa capolino nella politica italiana. Il conflitto, la dialettica delle posizioni sono, oltre che inevitabili, anche necessari. Le idee che alimentano una determinata visione del mondo, della storia, della vita sono di per sé “partigiane” ed in contrasto con altre visioni, come spiega bene ancora Zagrebelsky nel libro citato (p. 87). Ma è proprio questo che i reggitori della cosa pubblica dovrebbero fare: «evitare che le divisioni diventino distruttive» e «governare le divisioni» per cercare il bene comune.

    Per far questo, però, ci vogliono un progetto ed un’azione politica. Quand’anche non si volesse sposare questa idea “liberale” del conflitto e si ritenesse, più radicalmente, che tra conflitti non può esserci composizione, ma solo il prevalere di qualcosa su qualcos’altro, occorrerebbero comunque un progetto ed un’azione politica. Che devono trovare la forza di affermarsi nella condivisone di idee da parte di un numero sempre maggiore di persone e non sulla negazione del diritto degli altri a “parteggiare” per altre idee.

     Il desiderio di “asfaltare” può, naturalmente, nascere anche da disagi e difficoltà di esistenza imposte a fasce sempre più larghe di popolazione dallo strapotere di gruppi sociali che riescono a prosperare persino nelle crisi economiche; anzi: usando proprio le crisi a proprio vantaggio. I disagi e le difficoltà, protratti, danno luogo a frustrazione e rabbia. E’ umano e più che comprensibile. Ma la rabbia va tradotta in energia che fermi quello strapotere e, come si diceva una volta, cambi il mondo. Altrimenti diviene il terreno su cui crescono personaggi ed attività che si muovono nell’autoreferenzialità, che è esattamente quello che viene, giustamente, rimproverato a coloro che hanno fatto della politica un mestiere e che si dice di voler avversare.

    In tal modo, tanto coloro che celebrano quotidianamente la liturgia del potere, quanto coloro che sembrano agitarsi per infrangerla, partecipano alla comune opera di demolizione dell’educazione alla cittadinanza che nelle scuole si tenta di fare. Perché, entrambi, praticano un’idea di polis che vorrebbe ridurre il cittadino a figurante. O ad un suddito-tifoso. Ed infatti, gli uni e gli altri praticano il comune linguaggio dell’ “asfaltare”.

 

 

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