Scuola, la riforma di Renzi:
grandi promesse, amare realtà

Jacopo Tondelli,  Wired.it 27.8.2014

Fin dall’inizio della sua proiezione a leader nazionale, Matteo Renzi, nella costruzione della propria immagine pubblica, ha dedicato ampio spazio alla scuola e alla formazione. Già alla Leopolda, dove tutto iniziò, di scuola si parlava molto, e dalla scuola provenivano molte voci. Arrivato al vertice del Pd e poi del governo, Renzi ha atteso appena qualche mese per annunciare l’ennesima “rivoluzione” sottesa alla riforma della scuola spiegata a grandi linee dalla ministra Giannini al meeting ciellino di Rimini, e che sarà dettagliata venerdì 29.

Sul metodo, interessante notare come il “primo premier che diserta il meeting”, come pomposamente ha fatto in modo di essere definito lo stesso Renzi, abbia fatto annunciare la riforma della scuola (vero core business ciellino) proprio al meeting. Un colpo al cerchio, uno alla botte, si diceva quando i premier democristiani andavano, acclamati, al meeting riminese.
Ma passiamo al merito della riforma, per quanto sia possibile commentare sulla base di uno schema ancora generico che sarà precisato appunto dopodomani.

I principi di fondo, anzitutto, a cominciare dall’introduzione (o meglio: dal rafforzamento, visto che le ultime riforme gettavano i primi semi) di criteri dipremialità per gli insegnanti più meritevoli. Giusto, sacrosanti, evviva, bis. Tutti d’accordo sul principio, fino a quando non è il momento di capire come il principio diventa norma e interpretazione della norma, cioè realtà. Una direzione più strettamente “qualitativa” – cioè più meritocratica – aprirebbe una discussione complessa sui criteri, e necessariamente su come articolare gli stessi in funzione delle diverse situazioni riguardate dai diversi complessi scolastici. Un’autonomia che potrebbe sfociare nell’arbitrio, direbbe qualcuno, oppure un riconoscimento implicito di tali e tante sfumature da rendere impossibile una gestione ordinata e, in definitiva, corretta del principio meritocratico. Per questo, e per evidenti ragioni di risorse, la scelta del governo sembra dirigersi verso un premio economico a un merito commisurato su criteri strettamente quantitativi.

Chi più fa, all’interno del sistema formativo scolastico, più prende. Fino a tremila euro lordi annui per gli insegnanti che più si prestano per attività collaterali, corsi di recupero, e varie attività scolastiche. E quelli che ritengono che le ore del dopo-scuola siano fondamentali per formarsi, magari silenziosamente, o servano per preparare lezioni articolate secondo metodologie nuove, che richiedono di essere apprese anzitutto dagli insegnanti? Per il momento tutto tace, in merito, e la coperta è necessariamente corta. Vedremo.

Passando velocemente ai principali punti della ipotesi di riforma, balza sicuramente all’occhio la promessa della “fine del precariato“. Promessa da cento milioni, visto che riguarda centinaia di migliaia di insegnanti. La maggioranza dei quali dovranno essere stabilizzati, mentre una consistente minoranza si troverà fuori dal sistema scuola. Con quali criteri avverrà la selezione? Quale “meritocrazia” opererà in un ginepraio di stratificazioni generazionali, dove le anzianità ventennali pesano come macigni?

Come suggerito da Mariapia Veladiano su Repubblica servirebbe delicatezza e sguardo d’interno da chirurghi, e poi risolutezza nell’escludere chi usa la scuola come secondo lavoro permanente, ma vive di altro, e ad altro pensa. Un’impresa nella quale tutti finora hanno fallito, mentre anche Giannini e Renzi, almeno per ora, non dicono dove si troveranno le risorse che servono, e non possono non sapere che la fine dell’ideologia che sbarrava la strada ai finanziamenti dei privati – sventolata da Gianni a Rimini – può forse aiutare in alcune situazioni, ma di sicuro non basta a risolvere il problema di un comparto vittima di prolungati cattivi investimenti e poca spesa.

Ancora, non basta la promessa spaccona di un premier che vuole la “sua” scuola in grado di insegnare l’inglese come l’italiano (non capita neppure nei paesi scandinavi o in Germania, il cambio di verso promesso appare insomma credibile come quel famoso “milione di posti di lavoro” di berlusconiana memoria) a spiegare come si formerà improvvisamente un corpo insegnante che di questo paese è figlio, e quindi nel suo complesso sa l’inglese meno – perché meno lo ha studiato, a scuola e all’università – dei colleghi stranieri.

Per raggiungere l’obiettivo, ancora, servono tempo e risorse economiche, ancora una volta, e il piatto – come noto – piange. Tanto che la promessa di un’ulteriore attenzione alle scuole private, rivolta da Giannini alla platea ciellina, appare insostenibile economicamente, e di dubbia ragionevolezza politica, in quest’epoca. Proprio la Giannini, tuttavia, ha detto parole giuste che vale la pena di annotare. “Chi nasce oggi entrerà a scuola nel 2018 e ne uscirà nel 2038. La scuola su cui stiamo lavorando adesso entrerà a regime per loro”. Come fanno gli statisti che, si sa, non pensano al prossimo voto, ma alla prossima generazione. Sarebbe bello, se davvero, finalmente, fosse vero.