Decreto Scuola: cosa c’è e cosa manca

di Marco Campione, i Mille 20.9.2013

Nell’ultima settimana si è tornati a parlare di scuola. Succede sempre all’inizio dell’anno scolastico, ma questa volta il pretesto è stato un altro. Il governo ha varato il Decreto Scuola (qui il testo integrale) e tutti i commentatori sono stati costretti a confrontarsi con il merito di alcune scelte che non fossero solo tagli o propaganda su condotta e grembiulini.

È già questo un risultato da rivendicare. Non tanto la pur apprezzabile inversione di tendenza sul fronte “quantitativo” (il provvedimento prevede finalmente investimenti per 400 milioni di Euro!), quanto quella “qualitativa”: un’attenzione rinnovata e diffusa al tema dell’education. Non capita tutti i giorni che il prestigioso Sole 24 Ore dedichi speciali a questo tema, o che l’editoriale del giorno successivo – pur denunciando le carenze del provvedimento – si concluda con “è solo il primo tempo”. Un’apertura di credito verso il ministro, che immagino non sia passata inosservata e spero non vada disattesa.

Ed eccoci al Decreto: cosa c’è, cosa manca e perché, cosa andrà completato con altri provvedimenti. Non c’è quasi nulla di strutturale, ma questo non deve sorprendere: non è il decreto legge lo strumento per le riforme strutturali. Non c’è nulla sul fronte dell’integrazione tra istruzione e lavoro, nonostante il ministro abbia più volte chiarito quanto la cosa gli stia a cuore. Questo spiace davvero, avendo più volte argomentato che anche a mio avviso è quello uno dei passaggi cruciali per la crescita del paese. Ma voglio fare mio il già citato auspicio di Forquet sul Sole: diamo modo a Carrozza di giocare il secondo tempo di questa partita prima di darci per sconfitti. Ciò che veramente preoccupa è invece la mancanza assoluta di un ragionamento organico su reclutamento e formazione iniziale. E questo nonostante il provvedimento contenga due misure molto significative (ed onerose sul piano finanziario). Verranno immessi in ruolo 27.000 insegnanti di sostegno ed è stato autorizzato un piano triennale di assunzione di 69.000 docenti a copertura del turn-over.

Come verranno selezionati? I primi non lo saranno: ci si limiterà a stabilizzare chi oggi è precario. Ottima notizia per loro (lo dico senza ironia), ma per la scuola? In questo caso anche, ma la risposta non era scontata. Lo è, infatti, a patto che si assumano solo persone che hanno una specializzazione sul sostegno. Così non fosse, lo Stato si appresterebbe ad immettere in ruolo migliaia di docenti che non hanno ricevuto alcuna formazione specifica per svolgere una funzione cruciale per i ragazzi disabili e per tutta la scuola, che – giova ricordarlo – nel nostro paese è la scuola dell’integrazione. Decisione lungimirante di molti anni fa, che però se non è accompagnata da scelte coerenti (e avere solo personale appositamente formato è una delle principali) rischia di restare solo sulla carta.

È invece il piano triennale di assunzioni che arriva in un momento nel quale dal Miur ci si aspetterebbe maggiore chiarezza su come intende selezionare il personale che decide di assumere a tempo indeterminato. Prima dell’estate il ministro ha fatto proprie le scelte “coraggiose” del suo predecessore sulla scelta del concorso come via maestra per accedere all’agognato ruolo. Poco prima di varare il decreto invece è sembrata fare marcia indietro, dichiarando che non avrebbe più indetto concorsi fino a quando le graduatorie non fossero esaurite. Su un punto ha ragione il ministro: “mai più concorsi come l’ultimo”. Ma allora non era il caso di chiarire come andrebbero svolti prima di anunciare piani triennali di assunzione?

In attesa di una riforma più organica del reclutamento che la faccia finita con le graduatorie (GAE), non ci sono alternative serie al doppio canale: 50% di immissioni in ruolo dalle GAE e 50% dal concorso per tutte le classi. Solo così viene data una possibilità a quei neo laureati che desiderano insegnare e a quelli che si sono abilitati tramite TFA, che non sono nelle GAE. Perché questo meccanismo funzioni ci sono tre condizioni da rispettare: rigore (mai più sanatorie tipo i PAS), periodicità dei concorsi (ogni due anni), assunzioni costanti almeno a copertura del turn-over. Il decreto risolve positivamente la terza condizione, ma non le altre due: così rischia di essere un provvedimento che taglia fuori dalla scuola intere generazioni di aspiranti docenti molto motivati e preparati. Spero che Carrozza saprà fugare queste preoccupazioni.

Ed eccoci a quello che nel Decreto c’è. Tralasciando i dubbi sulle coperture (ad esempio, è colpita soprattutto la birra, un prodotto consumato solitamente dalle fasce più deboli della società), quello che c’è non è poco. Ci sono interventi a favore del welfare studentesco e per i docenti (ad esempio finalmente potranno entrare gratis nei musei come avviene in tutto il mondo civile), norme sui libri di testo che ridurranno la spesa delle famiglie e investimenti significativi sull’edilizia scolastica e sulla sicurezza. In particolare però ci sono almeno due provvedimenti che hanno un forte valore simbolico e sbaglia chi non lo riconosce, anche perché rischia di perdere di vista cosa va difeso dagli assalti corporativi che arriveranno in sede di conversione.

Il primo riguarda la soluzione della questione degli “inidonei”, che nelle scelte del governo Monti aveva di fatto bloccato la possibilità di assumere nuovi ATA. Tralascio i dettagli: ciò che va sottolineato è che la soluzione trovata (se non verrà modificata dal parlamento) consente di risolvere il problema dei precari ATA senza però rinunciare al principio che gli inidonei debbano essere impiegati in ruoli diversi, se necessario anche presso altre amministrazioni dello Stato. Si tiene duro su un principio sacrosanto di moralità pubblica: anche questo è un bel segnale di inversione di tendenza!

Il secondo provvedimento che sancisce un principio importante è l’introduzione dell’aggiornamento obbligatorio. Per ora – vista la limitatezza delle risorse – lo si fa solo per chi insegna in realtà con risultati ai test Invalsi inferiori alle aspettative, ma il principio è finalmente sancito. Ed è dimostrato che la funzione dei test non è dare pagelle, bensì consentire all’amministrazione di investire di più là dove serve. Con buona pace delle pretese di Gelmini e Brunetta e dei timori della categoria. Non che il meccanismo non sia migliorabile, ma un primo passo nella direzione giusta è stato fatto.

Vi è un’ultima categoria di provvedimenti, ovvero ciò che è nel Decreto ma la cui attuazione è demandata anche a successivi provvedimenti. Mi riferisco in particolare al corso-concorso per i Dirigenti Scolastici da svolgersi ogni anno presso l’Alta scuola della Pubblica Amministrazione e al dimensionamento scolastico.

La norma per la formazione dei Dirigenti vorrei avesse due caratteristiche. La prima riguarda la definizione dei titoli necessari ad accedere al corso-concorso. Devono contare molto più di qualsiasi test preselettivo e devono essere riferiti a ciò che viene maturato nel lavoro scolastico: funzioni strumentali, funzioni direttive vicarie, direzioni dei dipartimenti, attività progettuale o di ricerca didattica certificate…. Inoltre è opportuno che presso l’Alta Scuola si istituisca un percorso per la carriera direttiva scolastica che tenga conto della specificità della funzione.

Per quel che riguarda il dimensionamento scolastico e l’assegnazione degli organici, essi vengono riconsegnati alla loro sede propria, ovvero la Conferenza Unificata Stato Regioni, sanando un elemento di dubbia costituzionalità introdotto dal ministro Gelmini. È di per sè un’ottima notizia. L’auspicio ulteriore è che in Conferenza le forze sane si impongano su chi continua ad avere un approccio da – perdonatemi – “salumiere” (ci guadagno o ci perdo docenti rispetto a prima?), piuttosto che avere a cuore la valorizzazione del proprio ruolo programmatorio. Se così sarà, si potrà finalmente arrivare all’assegnazione alle singole regioni degli organici (docenti e dirigenti) non più sul numero delle classi, ma sul numero di studenti, aprendo la strada ad una seria programmazione scolastica regionale come prevista dal Titolo V della nostra Costituzione.

In sintesi, ciò che c’è è molto importante e segna un passo nella giusta direzione. I riformisti che hanno a cuore una seria riforma della scuola italiana devono innanzi tutto rivendicare questo. Non si attardino dunque nel dividersi tra chi vede il bicchiere mezzo vuoto e chi lo vede mezzo pieno. Si uniscano piuttosto perché prima il parlamento e poi i passaggi normativi che arriveranno non svuotino il bicchiere. A quel punto saremmo tutti d’accordo, ma non ci sarebbe niente da festeggiare.