Precariato, ricerca, lavoro.
I «numeri da cambiare» per scuola e università

di Alberto Magnani, Il Sole 24 Ore 23.10.2013

Meno precariato, più fondi alla ricerca, più pratica. Sono le tre linee di riscatto del sistema educativo italiano secondo «I numeri da cambiare», la ricerca redatta da Associazione TreLLLe e Fondazione Rocca in partnership con Assolombarda. L'indagine analizza deficit e marce in più di scuola e università, dalle elementari alle borse di dottorato. Soprattutto deficit: da una bolla di supplenze che assorbe il 15% degli insegnanti a spese per la ricerca sotto alla media Ue.

Scuola, gli scogli: precariato e ricambio generazionale

Sul fronte scuola la competitività dell'istruzione si scontra su precariato e blocco del ricambio anagrafico tra insegnanti. Da un lato supplenze, graduatorie e trasferimenti improvvisi precludono il tempo determinato a più del 15% dei docenti. Dall'altro, la trafila per cattedre in bilico dai "concorsoni" di 2003 o addirittura 1990, fa alzare l'età di chi siede in cattedra. Ben oltre le statistiche Ue: i professori di ruolo operativi nel 2009 viaggiavano su una media di 50.1 anni, contro i 43.7 della Francia, i 43.6 della Spagna i 42.6 del Regno Unito. Risultato: stallo totale, o quasi, del turnover tra vecchie e nuove classi di professori. Con l'aggiunta del tasto dolente dell'abbandono scolastico. Sempre nel 2009 il 16.4% dei giovanissimi tra i 15 e 19 anni ha interrotto gli studi prima della maturità. Fanno peggio Regno Unito e Spagna, a 19.4% e 17.4%. Ma in Francia e Germania il "buco" anticipato sui banchi si restringe a 11.1 e 7.7%

Università, pochi fondi alla ricerca (e l'apprendistato non decolla)

Nel salto all'università, pesa soprattutto la svalutazione della ricerca. Nel 2009, l'Italia ha investito nel settore l'1% del Pil, contro una media europa dell'1,4. Divario ribadito nelle spese "pro-studente" tra paesi del Vecchio Continente. Su un paragone mondiale, stilato con la conversione in parità di potere d'acquisto (Ppa), la spesa netta per istituzioni universitarie e programmi di ricerca non superava i 9.562 dollari Usa. In Francia si sale a 14.462, in Germania a 15.711, nel Regno Unito a più di 16.338. Senza contare i lavori, ancora in arretrato, su apprendistato e tirocini professionalizzanti: abbiamo già scritto del modello dell'Olanda, dove il fisso per lo studente che decide di avviarsi alla professione si stabilizza dai 23 anni in poi sui 1.400 euro mensili.

Da dove ripartire...

Tutto in bilico? Non proprio. La Lombardia, ad esempio, ha pareggiato i risultati tedeschi nei ranking Ocse-Pisa sulla qualità dell'apprendimento della matematica tra gli studenti di 15 anni di età. E nel ranking Scimago, tarato sull'impatto scientifico degli atenei con il filtro di più di 20mila pubblicazioni accademiche, si classificano in buona posizione 16 istituti italiani. Né è vero che l'Italia "spende poco", in blocco, per l'istruzione: il nostro paese scavalca addirittura la media dell'Ue 19 nell'investimento pro capite sulle classi della scuola primaria: 8.669 dollari Usa dopo la conversione in Ppa, contro i 7.762 che emergono dal calcolo incrociato dei finanziamenti versati da Berlino, Parigi o Londra.

...e come farlo

Tra i numeri da cambiare, nel vero senso del termine, la ricerca indica retribuzione differenziati per gli insegnanti, sistema di valutazione nazionale che "quantifichi" e qualifichi gli istituti, focus sull'autonomia scolastica:«Contro il modello rigido e ipercentralizzato del Miur – precisa l'indagine - che gestisce 40mila sedi e oltre un milione di addetti». Nel futuro? Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, riassume lo snodo per raggiungere l'Europa. In tre punti: «colmare il gap tra un modo di insegnare troppo teorico e passivo e uno stile aggiornato al digitale e all'imparare facendo», soddisfare il «fabbisogno di professionalità qualificate richieste dal mondo del lavoro» e «colmare il distacco con la consapevolezza di quanto innovazione e ricerca siano strategiche per una ripresa stabile».