dal 2000 questi istituti sono equiparati agli Atenei,
ma i minorenni sono 34.400 su 47.900

Conservatori, 6mila docenti con otto studenti l’uno

Pochi i nuovi licei, formazione musicale nel caos.
Per gli aspiranti musicisti una scuola a Milano e Roma, 16 in Campania

 Il Corriere della Sera 14.11.2013

Hanno lavorato a lungo, i sindacati, perché si aprisse il paracadute: un emendamento firmato da una ventina di deputati democratici e comparso nella legge di conversione del decreto scuola. C’è scritto che 1.120 docenti precari dei Conservatori sono per il momento salvi. Certo, per stabilire in che modo avverrà il salvataggio si dovrà attendere il solito decreto ministeriale attuativo. Però il principio almeno è stato messo nero su bianco.

Di storie così sono piene zeppe le cronache parlamentari: cominciano con l’affanno e finiscono con un sospiro di sollievo. Ma questa apre anche uno squarcio su uno stato di cose assurdo. Quei 1.120 precari, il cui costo annuale si aggira sui 60 milioni, si aggiungono ai 4.900 docenti di ruolo negli 80 fra Conservatori pubblici e Istituti musicali pareggiati (quasi tutti comunali). Per un totale di circa 6 mila professori, oltre a 1.200 esperti «a contratto». Che in un Paese con le tradizioni musicali dell’Italia potrebbe non sembrare un numero sorprendente. Se però andiamo a vedere le cifre degli iscritti, la prospettiva cambia. Perché 6 mila docenti per circa 48 mila studenti significa che ce n’è uno ogni otto, in confronto alla media universitaria europea di uno a tredici e italiana di uno a venti.

Già, perché i Conservatori, come anche le Accademie, dovrebbero essere in tutto e per tutto equiparati agli atenei. Lo dice una legge approvata quattordici anni fa, negli ultimi mesi del governo di Massimo D’Alema. Anche se quella legge, in tutto questo tempo, non è mai stata completamente applicata per colpa della mancanza, forse non casuale, di alcune norme di attuazione. Il risultato è surreale. Dall’anno 2000 ai Conservatori sarebbe riservato l’insegnamento di livello universitario, destinato cioè a chi ha completato la scuola media secondaria. Gli aspiranti musicisti più giovani dovrebbero invece frequentare appositi licei musicali statali. Ma la riforma, ammesso che fosse del tutto sensata, è andata avanti con il contagocce. Tanto a rilento che di licei musicali pubblici ne sono nati ben pochi. Una settantina in tutto, e con una distribuzione territoriale talvolta assai curiosa. A Milano, per esempio, ce n’è uno solo. Come a Roma: ed è uno dei quattro esistenti in tutto il Lazio. Mentre se ne trovano 16 in Campania. Dove c’è un liceo musicale perfino a Gesualdo, 3.557 anime nella Provincia di Avellino.

Fatto sta che ancora oggi tantissimi studenti minorenni continuano a frequentare i Conservatori, che non hanno mai abolito i cosiddetti corsi per liceali. Anzi, sono proprio costoro la maggioranza assoluta degli iscritti: su 47.900 ci sono soltanto 13.500 «universitari» e ben 34.400 studenti «medi». E questo nonostante le norme lo escludano esplicitamente, come ricorda anche un recente parere dell’Avvocatura dello Stato. Precisando che «la legge fa riferimento soltanto alla possibilità di stipulare convenzioni con le istituzioni scolastiche e non attribuisce ai Conservatori il potere di istituire corsi pre-accademici rivolti agli alunni delle scuole al di fuori di quelle convenzioni. Si aggiunga altresì che allo stato attuale non appare neanche possibile effettuare siffatte convenzioni: e ciò per la decisiva ragione che non risulta ancora emanata la specifica disciplina regolamentare...».

Da queste parole si deduce che l’insegnamento musicale è nel più completo disordine. Se non addirittura nella illegalità. Una situazione che di sicuro non fa onore a un Paese che ha dato al mondo i Niccolò Paganini, i Giuseppe Verdi e gli Arturo Toscanini. Ma che forse fa comodo a qualcuno, come potrebbe far capire la piccola sanatoria approvata dal Parlamento qualche giorno fa. Perché è ovvio che se i Conservatori dovessero concentrare la propria attività sull’insegnamento di livello universitario i docenti diventerebbero un numero insostenibile: quasi uno ogni due iscritti. Con la conseguenza inevitabile di un gigantesco rimescolamento di carte con i licei, che nessuno auspica.

Non è un caso che, ancor prima di vedere la luce, la prevista riorganizzazione del ministero dell’Istruzione sia stata già bersagliata dalle critiche provenienti da quel mondo. La ragione è la soppressione della direzione dell’Alta formazione artistica e musicale, in gergo Afam, regno incontrastato del potente direttore Giorgio Bruno Civello, alle cui cure sono stati affidati per anni i destini di Accademie e Conservatori. A rimarcare in questo modo una rigorosa separatezza dall’università, che però il ministro Maria Chiara Carrozza vuole ora azzerare. Il decreto di riordino del ministero stabilisce che l’Afam sia disciolta in un nuovo Dipartimento per la formazione superiore e per la ricerca: cui saranno assegnate, appunto, tutte le competenze sul settore universitario.

 

«Anello debole», «maglia nera» della scuola italiana. Le metafore contro la scuola media si sprecano. Nata 50 anni fa con l’intenzione, sacrosanta, di porre fine all’odioso doppio percorso (di eredità fascista) che condannava i figli dei contadini e degli operai all’avviamento professionale riservando la «scuola di mezzo» solo a chi era destinato (per storia familiare) a proseguire gli studi, la media unica è invecchiata, ed è invecchiata male. Doveva offrire un’istruzione di qualità per tutti ma ci è riuscita solo a metà: ha innalzato sì il livello di scolarità ma non ha saputo garantire a tutti i ragazzi le stesse opportunità di successo scolastico. Con il risultato che mentre nella scuola primaria i bambini viaggiano ancora abbastanza alla pari, le differenze socioculturali esplodono proprio alle medie: quanto più la famiglia è istruita, tanto migliori sono i risultati scolastici. E siccome il livello d’istruzione delle famiglie italiane è molto basso (quasi metà degli italiani adulti non ha un diploma di scuola superiore, contro una media Ocse del 27%), il successo scolastico finisce per arridere ai pochi fortunati che hanno i genitori diplomati o laureati, mentre tutti gli altri sono condannati a fare la parte degli asini, soprattutto se confrontati con i loro coetanei di altri Paesi.

Guarda le slides tratte dalla ricerca «I numeri da cambiare» elaborata dall’Associazione TreeLLLe e dalla Fondazione Rocca

LETTORI ESPERTI ALLE ELEMENTARI, ASINI ALLE MEDIE? - E dire che alle elementari partiamo alla grande. Basta guardare i risultati dell’indagine PIRLS 2011 sulle capacità di lettura dei bambini di 10 anni. In base a questa rilevazione, gli alunni italiani raggiungono un punteggio medio di 541, staccando nettamente i coetanei spagnoli (513) e francesi (520), a parimerito con i tedeschi . Se si confrontano questi risultati con quelli dell’ultimo test Pisa sulle competenze dei quindicenni nei Paesi Ocse si vede come, sul fronte della cosiddetta «literacy» (ovvero le competenze linguistiche), i nostri ragazzi nel giro di pochi anni perdano molte posizioni, finendo sotto la media Ocse (486 contro 493 punti), facendosi largamente sorpassare dai colleghi inglesi (494), francesi (496), tedeschi (497): indietro restano solo gli spagnoli (481), mentre a distanze siderali svettano i «soliti primi della classe»: asiatici e Paesi del Nord Europa (sul podio, Cina, Corea e Finlandia, rispettivamente a quota 556, 539 e 536).

BOCCIATI IN MATEMATICA - Né le cose migliorano quando si passa alle cosiddetta «numeracy». Basta guardare i risultati dell’indagine TIMSS 2011sulle capacità matematiche e scientifiche dei bambini di 10 anni e dei 14enni. Anche in questo caso i bambini delle elementari si piazzano piuttosto bene in matematica, sopra la media dei 500 punti (508). Mentre gli adolescenti finiscono, anche se di poco, sotto il valore di riferimento medio (a quota 498). Idem per le scienze. Secondo il «Rapporto sulla scuola italiana» della Fondazione Agnelli pubblicato da Laterza nel 2011, l’Italia è il Paese con il calo degli apprendimenti più netto fra elementari e medie.

PROF VECCHI, ADOLESCENTI ANNOIATI - Andando a ricercare le cause di risultati così poco lusinghieri, nello stesso studio si vede come i preadolescenti italiani siano molto più a disagio dei loro coetanei a scuola. Una delle possibili ragioni di questo scollamento, indicata da più parti, sta nell’età avanzata dei docenti. Mancano, in generale, insegnanti giovani (l’età media in Italia è di oltre 50 anni contro i 43 della media europea) , anche per via del sistema di reclutamento legato alle liste del precariato. Professori anziani, con insufficienti conoscenze informatiche, che faticano ad entrare in contatto con i cosiddetti nativi digitali (come del resto faticano anche i loro genitori incapaci di trovare una strada per comunicare con i loro figli «marziani», tutti app, videogiochi e social network). Resta da spiegare come sia possibile che a 15 anni sei ragazzi su dieci non sappiano da cosa dipende l’alternarsi del giorno e della notte…