Ricercatori in fuga

Marta Facchini da Uno sguardi al femminile, 4.3.2013

La valigia di cartone stretta con lo spago, ultimo ricordo di un passato nostrano, lascia il posto a una certificazione di dottorato. Eccolo il ricercatore-migrante tipo; età media 32 anni, spesso proveniente da una famiglia con alto livello di istruzione, impegnato in posizioni professionali a termine, in assegni di ricerca o borse post-doc.

Nel 2010 l’IRPS conduce un sondaggio sui ricercatori italiani residenti all’estero iscritti alla banca dati DAVINCI; i risultati mostrano come la condizione lavorativa degli intervistati appaia loro decisamente soddisfacente, soprattutto se confrontata con il periodo di ricerca negli istituti italiani. Infatti, nella maggioranza dei casi, i ricercatori sono diventati professori ordinari, ricercatori senior o direttori di ricerca. Le risposte permettono di rivelare come la fuga dei cervelli sia fondamentalmente dovuta alla scarsa disponibilità di lavoro nel settore scientifico, riguardante non solo il lavoro stabile ma anche quello condotto su fondi di progetto. Opportunità di carriera, contratto a tempo indeterminato e mensile netto superiore rispetto a quello italiano sono alcune delle principali motivazioni che spingono all’abbandono dello stivale. Accanto, ovviamente, si colloca la possibilità di svolgere un’attività scientifica di alto livello. Quanto alle stime, il 63% degli intervistati non intende tornare in Italia.

La ricerca portata avanti da Sylos Labini e Zapperi (2010) indica che, se si manterranno i flussi in uscita, l’Italia perderà circa trentamila ricercatori entro il 2020 per riacquistarne solo tremila. Il programma Rientro dei cervelli (D.M. 13/2001) nasce nel 2001 proprio allo scopo di incoraggiare il rientro dall’estero dei ricercatori italiani e di facilitare le possibilità lavorative di quelli stranieri. Il disegno di legge è modificato con il D.M. 501/2003, che porta la durata minima dei contratti a due anni e quella massima a quattro, e con il D.M 501/2005, che fissa il finanziamento minimo del MIUR per ogni contratto. A questi si aggiunge la Legge 122/2010, la quale prevede agevolazioni fiscali per tutti i ricercatori che scelgano il rientro nelle università italiane. Nonostante gli intenti, il programma ottiene dei risultati deludenti. I provvedimenti guadagnano il rientro di soli 519 ricercatori in nove anni, non riuscendo, tuttavia, a contrastare un flusso in uscita decisamente più consistente. Inoltre, solo ¼ dei ricercatori rientrati rimane nello stivale per più di quattro anni.

L’indagine condotta da Neodemos.it (Brandi & Cerbara, 2004) ha rivelato una sostanziale differenza tra i flussi in entrata e i flussi in uscita; mentre la maggioranza degli scienziati stranieri che lavora in Italia prevede di tornare in patria, non si verifica lo stesso per i ricercatori italiani emigrati. In entrambe le circostanze, ciò che determina il desiderio di lasciare il Paese è dovuto alle difficoltà di trovare lavoro, alle scarse prospettive di avanzamento di carriera in istituzioni di ricerca pubbliche o private e nelle università. E la conferma viene dall’ultima ricerca ISTAT, Mobilità interna e verso l’estero dei dottori di ricerca, relativa al dicembre 2009-febbraio 2010. Circa la metà è impegnata in contratti a termine, in assegni di ricerca o borse post-dottorato. Il 7% ha già lasciato il Paese e il 12% pensa di emigrare entro un anno. Come sostenuto, il numero degli espatriati è relativo al settore disciplinare: per esempio, quasi un quarto dei dottori in Scienze Fisiche è già emigrato.

E per non parlare delle perdite. La fuga dei cervelli pesa sulle casse italiane quasi quattro miliardi di euro. Nel 2010 a calcolarlo è l’Icom, l’Istituto per l’alta competitività, che commissiona l’indagine alla Fondazione Lilly e alla Fondazione Cariplo. Negli ultimi venti anni, l’Italia ha perso il guadagno che sarebbe stato dovuto al deposito di 155 domande di brevetto, per le quali l’autore si colloca nella lista “Top 20” dei ricercatori italiani all’estero, e di altri 301 brevetti, per i quali almeno un ricercatore italiano ha contribuito come membro del team di ricerca. Brevetti che in vent’anni hanno ottenuto un valore di 3,9 miliardi di euro. In media, ogni cervello in fuga può valere fino a 148 milioni di euro, nel caso in cui arrivi ai livelli degli scienziati più produttivi della “Top 20″ elaborata dall’associazione Via-Academy, costituita da un gruppo di ricercatori italiani emigrati (http://www.topitalianscientists.org). Il calcolo delle perdite è effettuato facendo riferimento al database dell’Organizzazione Mondiale per la proprietà Intellettuale, che indica per ogni scienziato il numero di domande internazionali presentate in base all’anno di pubblicazione. Inoltre, dalla ricerca emerge come i ricercatori italiani possiedano un eccellente indice di produttività individuale, con il 2,28% di pubblicazioni scientifiche.