Innalzamento dell’obbligo scolastico,
una battaglia di giustizia sociale

di Marina Boscaino da MicroMega, 16.3.2013

Leggo distrattamente un titolo su Tecnica della Scuola: “La scuola a 18 anni non è una proposta peregrina” (14 marzo). Mi rallegro. Penso – finalmente – che il dibattito inaugurato molto tempo fa, rinverdito a metà dello scorso decennio (quando il centro sinistra, che allora si chiamava Unione, promise un impegno sull’innalzamento dell’obbligo scolastico) si stia miracolosamente per riaccendere.

Guardo con più attenzione il sottotitolo e subito ritorno con i piedi per terra: “Emanuele Contu, responsabile Scuola Pd metropolitano milanese, sulla riduzione di un anno alle superiori dice, in un articolo su Il Sussidiario, che ‘occorrono interventi forti anche su questo segmento’”.

Segno dei tempi: la mia illusione e, di contro, la realtà concreta. L’innalzamento dell’obbligo scolastico almeno a 16 anni – in una scuola modificata, capace davvero di accogliere tutti – è un sogno ormai di retrovia. Il mio (ma non sono sola) è un nostalgico accanimento a pensare che alcune battaglie “di sinistra” (che altro non sono che battaglie per la civiltà del Paese) non possano essere state cancellate del tutto dalla coscienza collettiva; ma so che ora, dopo lo tsunami Gelmini Profumo, sembrano a molti rincorse romantiche e datate, a tutti il ricordo di un tempo che fu (quando – parlando di scuola – non si parlava solo di tagli).

L’articolo è infarcito di dichiarazioni ed analisi banali e banalizzanti (di Contu), che evocano gli evergreen di sempre: “ce lo chiede l’Europa” (il più tenace e fastidioso, anche perché il più ipocrita). Altrove e a più riprese si è cercato di spiegare come questa presunta richiesta sia più che altro un mantra immaginifico e di comodo: pronunciarlo comporta immediatamente l’ingresso nella modernità. Che, tradotto, significa l’accoglimento acritico del neoliberismo e nella rinuncia alla maggior parte delle espressioni di giustizia sociale.

Ma senza entrare nel merito di una problematica che, prima o poi, saremo concretamente costretti ad affrontare, considerate le pressioni trasversali che fanno convergere in quella direzione (non solo alcuni esponenti del Pd, ma anche molti del centrodestra e soprattutto tutta la pattuglia montiana vogliono fortissimamente l’accorciamento di un anno del percorso delle superiori) ci si domanda come mai l’Europa non ci chieda – questa volta davvero! – di allinearci agli altri Paesi quanto a età di assolvimento dell’obbligo scolastico.

Sempre pronti a creare scorciatoie e facili via d’uscita, mentre in tutti gli altri 26 Paesi si va a scuola fino al completamento del biennio delle superiori, da noi – e solo da noi – la scuola è obbligatoria fino alla terza media. Il biennio della scuola superiore in Italia conduce all’assolvimento dell’obbligo di istruzione, esattamente come i percorsi di istruzione e formazione e come – ahimé – un anno di apprendistato. Che – giuridicamente – da noi ha la stessa validità, ad esempio,  di un anno di V ginnasio. Tre canali drammaticamente differenti, che preparano destini altrettanto differenti attraverso la selezione di classe.

Ha la medesima validità a livello di competenze di cittadinanza, per i ragazzi che frequentano l’uno e l’altro percorso? Evidentemente no. Tanto più che confluiscono nelle due opzioni “non scolastiche” i figli delle fasce più deboli della popolazione. A riprova che la scuola italiana ha cessato da tempo di essere quello strumento di emancipazione dalle origini socio-economiche che la Costituzione prevedeva fosse. Chi se lo può permettere va a scuola. Gli altri a lavorare, a “saper fare” precocemente. Tanto per ricordare – sempre e implacabilmente – che c’è chi può e chi no: chi sei, dove sei nato, le chance che (non) avrai.

Ecco il Paese di Pulcinella che continua nella sua triste commedia dell’arte: ruoli fissi, sensibili alle sirene della modernità solo quando fa comodo e produce risparmio, soprattutto quando si tratta di scuola. È “moderno” immobilizzare attraverso il percorso scolastico svantaggi o privilegi di nascita? E’ “moderno” che – a 15 anni – già si sappia se sei un cittadino di serie A o di serie B? Lo è, infine, non provvedere, viceversa, a seguire con cura e impegno maggiore coloro che provengono dal basso, per consegnargli una chance di emancipazione e farli entrare nel mondo che li accoglierà, quello del lavoro, con un bagaglio di cittadinanza che li sosterrebbe come individui singoli e come soggetti nella collettività?

Io penso di no. Ma loro sembrano concentrati nello sforzo di nobilitare dibattiti che hanno l’unico scopo di “semplificare e razionalizzare”, attraverso incrollabili certezze. Tanto non tocca né toccherà mai né a loro, né ai loro figli.