Fenomenologie della singolarità
e “grande Malattia”

di Gabriele Boselli, ScuolaOggi 28.5.2013

L’importante articolo su Scuolaoggi di Raffaele Iosa, una delle massime autorità scientifiche in materia, intitolato “La Grande Malattia” costituisce stimolo a riavviare una riflessione ulteriormente radicale e rigorosa sul’abnorme aumento delle patologie disgnosticate e su quei comportamenti scolastici che, pur non correlati a vere e proprie lesioni del SNC, tuttavia ritardano gli apprendimenti e i processi produttivi degli alunni e costituiscono comunque un motivo di disagio per il soggetto, di preoccupazione per la sua famiglia e di agitazione per qualche docente. Sicuro è il vantaggio dell’ideologia patologizzzante solo per i professionisti privati, cui si rivolgono i genitori spaventati dal “risultato” di qualche screening, magari di quelli a “tre minuti per diagnosi”.

 

Non siamo fatti in serie, anche se troppi apparati lo vorrebbero

Quando Iosa ed io iniziammo il nostro lavoro di maestri di scuola elementare (non abbiamo mai smesso) i ragazzi seriamente “altri” frequentavano le scuole speciali e qualcuno di coloro che oggi sarebbe definito portatore di “bisogni educativi speciali” veniva inserito nelle classi differenziali. Ma erano pochissimi.

Quanto al sisitema scolastico, il numero di alunni per classe era all’incirca quello di oggi e analogo il livello di difficoltà economica ma c’era omogeneità culturale e sociale e una maggior fiducia negli insegnanti. Tra i nostri alunni vi è stato chi brillava per velocità, profondità e ampiezza degli apprendimenti e delle espressioni di sè, chi segnava il passo e si rappresentava il mondo in maniera differente e diversa da quella comunemente percepita come normale. C’era chi veniva a scuola in prima sapendo già leggere e chi alla fine della seconda non aveva ancora imparato bene: nessun dramma, alla fine delle elementari tutti leggevano piuttosto bene e avevano imparato non solo la meccanica ma anche il piacere della lettura. Anche perchè nessuno aveva maondato in angoscia I genitori e aveva tormentato i ragazzi con processi diagnostici angoscianti.

Io non ho mai avuto in classe casi che io considerassi patologici; forse oggi molti di quegli scolari oggi avrebbero finito con l’essere classificati secondo qualche forma sub-clinica, con pregiudizio venturo inerente allo stigma.

La composizione dell’utenza scolastica (brutto termine) è nel frattempo mutata: ottimi reparti di neonatologia tengono in vita bambini assai sofferenti; molti stranieri con figli veramente ammalati vengono in Italia perchè nel nostro Paese si cura e si educa chiunque gratis; la crisi economica (sia quella reale che quella artificiosamente enfatizzata) dissemina povertà anche nella vecchia “classe media” e tensioni destabilizzanti.

Quanto ai veri e propri disturbi dell’apprendimento -dovuti ad anomalie del SNC che portano ad esempio a percezioni delle lettere caoticamente come disposte nello spazio- siano per fortuna molto ma molto rari. Va invece ricordato che lo sviluppo intellettuale ha tempi solo statisticamente prevedibili, che gli scostamenti dalla media non significano presenza di deficit o anomalie permanenti del’apprendimento e della produzione intellettuale. Ciascuno di noi ha tempi di maturazione e strutture percettive diversi e gli apprendimenti non hanno nè una sequenza temporale precisa nè identità di costituzione formale del mondo. Non siamo fatti in serie, anche se troppi apparati (vedi INVALSI) tendono a poterci trattare come tali. I treni non sono tutti uguali e a differenza dell’orario ferroviario, standardizzato e valevole per tutti i treni non esiste un “orario della persona”; questa ha propri ritmi, velocità, distribuzioni, dislocazioni. La persona non è un prodotto standardizzato, non può mai essere conosciuta fino in fondo, può sempre riservare sorprese, essere capace di miglioramenti incredibili come di involuzioni sconcertanti. Molte persone nell’infanzia ebbero problemi di linguaggio, impararono a leggere o a scrivere molto più tardi della media, presentavano ipersingolarità che determinavano discredito presso gli insegnanti e grande ansia in chi voleva loro bene.

 

Troppe pretese (rispetto ai mezzi)

Gli handicap veri e i disturbi autentici dell’apprendimento sono purtroppo anche un’innegabile (ma rara) realtà; però l’ideologia ipercompetitiva, “liberista” provoca comunque un aumento dei casi percepiti dai genitori e qualche volta anche dagli insegnanti (magari su suggerimento di interessati “esperti”) come manifestazioni patologiche.

Oggi il tema dei disturbi di apprendimento, sia quelli che potremmo chiamare “primari” che quelli secondari a difficoltà relazionali o di inserimento culturale e interculturale, attrae molto l’attenzione delle famiglie e dei docenti per diversi motivi. Se un tempo i genitori consideravano non drammatico che un bambino imparasse a leggere e scrivere in seconda e che solo in terza imparasse le tabelline, oggi alcuni di loro sono indotti dai media a pretendere l’inglese già alla scuola dell’infanzia e in prima elementare guai se il pupo non lavora con competenza al computer. L’ideologia dell’individualismo e della competizione non tollera ritardi o curvature della singolarità, pretende da tutti il massimo e chi non riesce a conseguirlo secondo copione viene spesso percepito e talvolta stigmatizzato come un sicuro perdente nella vita.

Sono convinto che quanto appena accennato accada solo in pochi casi ma l’ideale sarebbe che scomparissero del tutto per i loro effetti di stigmatizzazione della singolarità o di alibi per la limitatezza dei risultati: ogni persona ha diritto di essere se stessa anche nei modi e nelle tempistiche dell’apprendimento. Naturalmente “lasciar accadere” –secondo un noto concetto bertoliniano- non significa lasciar perdere.

 

Tradizione occidentale, dispositivi catastrofici e garanzie costituzionali

Fin dalle sue origini nella Grecia antica nella scuola si apprende (si prende-da) ma soprattutto si dona-a: nella stagione pre-INVALSI, Alunno e Maestro portano nel mondo qualcosa di proprio. I programmi c’erano ma un’ampia libertà d’insegnamento faceva sì che l’interpretazione prevalesse sulla lettera dei testi.

Le Indicazioni di oggi contano ancor meno dei vecchi programmi ma programmi ben più condizionanti iniziano a devastare lo scenario scolastico: sono i test INVALSI dell’anno precedente i veri obbligati riferimenti dell’azione didattica. Per essi ogni risposta diversa da quella prevista, per creativa e autenticamente critica che possa essere, è una risposta sbagliata. Ogni soggetto un tantino fuori norma (in bene o in male) è semplicemente uno che risponde sbagliato.

La svalorizzazione della differenza e della diversità porta a considerare positivamente solo la capacità di pensiero associativo, raccoglitivo, accattante, catalogante, amministrante, esecutivo, economicamente utile; si colpisce invece con lo stigma del “disturbo” il pensiero che fuoriesce dalle previsioni, le capacità e le abilità non considerate nelle tassonomie comportamentiste e cognitiviste dello sviluppo.

Qualcuno ha forse inteso per integrazione l’immedesimazione della persona negli schemi mentali e nelle stereotipie dell’anima prevalenti nella società. Io intendo per integrazione lo sviluppo della singolarità in armonia con il contesto: fare in modo che l’Intero del mondo accolga gli interi (le persone) per offrire loro spazi, non confinamenti; che gli interi si sentano comunque a loro agio nell’Intero. Il conoscere muove sempre da un atto originario della coscienza (intenzionale); senza che la coscienza non sia tesa ad altro non c’è vera acquisizione di conoscenza e comunque il disegno che la conoscenza del mondo assumerà nel soggetto individuale sarà inerente alla coscienza di questi, alle sue linee d’impronta, ai suoi tempi e modi. E sarà costitutiva del mondo concretamente vissuto.

Per spinte, per dinamiche Vero/falso o S/R si va poco avanti; l’importante è invece costituire una coinvolgente struttura di attese. Allora l’intenzionalità dello scolaro, incontrandosi con quella di genitori, maestri, compagni e con l’intenzionalità infusa nelle tradizioni disciplinari e nei testi, si con-verte a quel che l’umanità occidentale considera pensiero plausibile e autentico insieme, entro teleologie rispettose della soggettualità e nel contempo culturalmente degne di tanta tradizione. Il problema pedagogico è allora quello di evocare positivamente questo tipo di vettori intenzionali orientandoli all’oggetto entro le strutture dell’intersoggettività, portando l’allievo a sentire le discipline come espressione importante di parte del proprio mondo-della-vita, prodotti della “comunità intenzionale” degli uomini del Continente.

Il processo pedagogico autentico rinnova la conoscenza umana, soprattutto disegnando con l’attesa gli ambienti più adatti a perpetuarne la spinta inerente all’intenzionalità originaria, portando il ragazzo ad essere –in relazione con i genitori, la società, il maestro e tutta la comunità scolastica- protagonista non tanto di produzione di competenze quanto di un conoscere proprio nel leggere, scrivere, entrare nelle strutture generative e trasformazionali delle discipline. Una cosa mi conforta: la Costituzione del 47/48 è ancora in vigore e dunque vi è libertà di insegnamento: i “programmi INVALSI” e le “ricette tecniche” non sono vincolanti ma solo un elemento dello scenario cui la responsabilità del docente attribuirà la giusta considerazione. A noi evitare di essere più macchine dello stretto necessario, ad esempio non escludendo i diversamente abili dalle prove INVALSI ma facendoli partecipare come alle consuete attività scolastiche. Sono prove comunque insignificanti sul piano pedagogico, almeno non siano occasione di danno supplementare per i meno fortunati.

 

Si suggerisce la lettura, sul sito Paedagogica, di estratto del verbale del GLIP di FC dedicato ai BES; utile anche la lettura, in Encyclopaideia (Bononia University Press) n. 30 ann. 2011 del mio articolo “La valutazione nelle scuole”.