Il bullismo fa male anche ai bulli

di Elena Tebano, la 27 ora, blog del Corriere della Sera 24.6.2013

Il primo bacio, quello più importante della vita, lo scrittore americano Ryan Van Meter non l’ha mai dimenticato, eppure non era davvero un bacio e non era neanche suo. Nella storia di quel bacio, temuto, rimosso, rincorso e infine perdonato, c’è tutta l’essenza del bullismo: un filo di vergogna e dolore che lega vittime e tormentatori ben oltre l’infanzia. Van Meter la racconta in Se tu avessi saputo allora quello che so ora (If you knew then what I know now, Sarabande Books, 2011), un lungo dialogo con il bambino che è stato vent’anni prima. La storia comincia quando Ryan ha 12 anni, a casa di Mark, dove era andato per fare un lavoro di gruppo con lui e un altro compagno di scuola, Jared. In principio c’è una bravata: i due ragazzini lo fanno allontanare e quando torna li trova sul letto che fingono di baciarsi, «il palmo di una mano tra le loro bocche umide per non far toccare le labbra», ricorda Van Meter. Per Ryan è l’inizio di una tortura.

«Saprai che non si stanno baciando, ma saprai anche che vogliono farti pensare che si stanno baciando», scrive Van Meter. «Stanno cercando di farti dire di te cose che non sarai pronto a dire ancora per molti anni, ed è proprio questa la cosa che ti farà più male di quel pomeriggio», aggiunge. «Un giorno qualcuno ti chiederà della prima volta che hai baciato un ragazzo e tu penserai a questo bacio, quello tra Mark e Jared, il bacio che non è davvero un bacio e che non è nemmeno tuo. Ti verrà quasi da ridere. È buffo quanto sarà importante per te questo bacio – è stato il primo bacio che hai visto tra due uomini, per quanto giovani fossero», scrive Van Meter, che è gay.

Il bambino di allora corre via dalla casa dell’amico e fino al diploma di maturità si ostina a non scambiare neppure una parola con Mark e Jared. Ma la storia del bacio non è ancora finita. Ryan ci mette dieci anni prima di riuscire a raccontarlo a qualcuno, e lo farà posseduto dalla stessa paura del ragazzino dodicenne che fu. Ce ne vogliono ancora di più perché riesca a dare al bacio il giusto posto nella sua vita. Succede quasi due decenni dopo a una riunione della scuola, quando il tempo ha cambiato tutti. Ryan è con il suo ragazzo perché ormai non deve più nascondersi, Jared è un uomo massiccio con una moglie molto magra. Lo avvicina per i convenevoli di rito, gli mette una mano sul braccio e gli fa: «Senti, probabilmente non ti ricorderai neppure, ma c’è stata una volta in cui eravamo in quella cazzo di casa di Mark…». Ryan lo interrompe perché non vuole sentirlo: «Sarebbe stato troppo facile, troppo ovvio per questo tormentatore chiedere scusa durante una rimpatriata», scrive Van Meter nel racconto. Ma le scuse arrivano lo stesso: «Mi dispiace. Eravamo solo dei bambini idioti». E allora Ryan capisce: «Pensi che sia strano che tu abbia creduto di essere stato l’unico bambino ferito da quel bacio in camera di Mark – si dice –. Ma vedi che Jared porta quel giorno con sé proprio come te; porta una vergogna non molto diversa dalla tua. In qualche modo in tutti questi anni avete condiviso una cicatrice».

 

I danni a lungo termine su vittime e tormentatori

La storia di Van Meter mostra un aspetto del bullismo di cui si discute troppo poco: fa male a chi lo subisce, ma anche a chi lo agisce. E i suoi effetti durano nel tempo. «Il bullismo è un problema sia per i bulli che per le vittime», conferma E. Jane Costello, ricercatrice del Centro per le politiche familiari e dell’infanzia dell’americana Duke University. «Tendiamo a pensare che sia un aspetto normale e non particolarmente importante dell’infanzia. Invece abbiamo visto che può avere conseguenze molto serie per i bambini, gli adolescenti e gli adulti», aggiunge. Costello è una degli autori di uno studio ventennale sugli effetti a lungo termine del bullismo, pubblicato a febbraio scorso sulla rivista di psichiatria JAMA Psychiatry. I ricercatori hanno scoperto che le persone vittime di bullismo nell’infanzia, da adulti, sono oltre 4 volte più a rischio di sviluppare disturbi da ansia rispetto a chi non ha subito (né agito) questi comportamenti. Le persone che hanno sia subito che agito bullismo, invece, sono oltre 14 volte più a rischio di avere attacchi di panico da adulti e oltre 4 volte di cadere in depressione. Coloro che da adolescenti sono stati bulli, infine, hanno una probabilità oltre 4 volte maggiore degli altri di sviluppare un disturbo antisociale di personalità. Le ricerche sul fenomeno mostrano anche che il bullismo si “radica”: le vittime sono più esposte al mobbing anche da adulti, i bulli hanno più probabilità di avere problemi con la legge da grandi. «I bulli sono più sensibili alla propria rabbia e hanno meno empatia nei confronti degli altri: si educano a essere dei duri. E la bassa empatia è uno degli elementi che aumentano la propensione alla delinquenza. La scuola in questo è come un vivaio», spiega Giuseppe Burgio, pedagogista dell’Università di Palermo.

Le vessazioni adolescenziali sono frutto di un disagio di chi le compie e insieme creano danni psicologici duraturi anche agli aggressori. «Ma sarebbe sbagliato pensare che i bulli siano “cattivi”: hanno un deficit di autostima che aggirano mettendo in scena il bullismo: così non devono affrontare l’impegno psichico di guardarsi dentro», afferma Burgio. «Chi agisce il bullismo è fragile e adotta questi comportamenti per trovare protezione nel gruppo», conferma Roberto Goisis, psichiatra e psicoanalista della Società psicoanalitica italiana. «Spesso ad iniziare questo tipo di atti sono i ragazzi più “popolari”, che tentano in questo modo di mantenere il loro potere sugli altri. Ma più popolari non significa più forti. E se ricorrono a queste strategie significa che non sono così sicuri di mantenere la loro posizione», dice Goisis. Come racconta Van Meter, le angherie spesso sono accompagnate da un senso persistente di vergogna. «È il sentimento che più caratterizza il bullismo – concorda Goisis –. La provano le vittime e anche bulli: in fin dei conti quella del sopraffattore è una condizione vergognosa».

Gli atteggiamenti di prevaricazione sono diretti verso tutti quei bambini e adolescenti che per qualche motivo escono da una supposta “norma”: grassi, magri, bassi, timidi, miopi, mancini, con la voce strana, rossi, figli di immigrati, effemminati, malvestiti, benvestiti e via elencando. Potrebbe essere una filastrocca infinita, come quella che recitano le attrici del gruppo torinese Badhole nel loro video per Le cose cambiano (qui sotto). Ma tra le forme di bullismo forme più diffuse spicca, perché meno stigmatizzato, quello contro i ragazzi e le ragazze omosessuali, o percepiti come tali.

 

Il silenzio sul bullismo anti gay

In Italia le parole denigratorie per gay e lesbica sono l’insulto più usato nelle scuole: in media sette volte a mattinata. Un avvertimento continuo per gli adolescenti lgbt, a cui più volte al giorno viene indirettamente “ricordato” che valgono meno degli altri. Una ricerca realizzata in Gran Bretagna dall’associazione Stonewall e pubblicata nel 2012 rivela che il 55% dei giovani gay e delle lesbiche subisce una qualche forma di bullismo omofobico a scuola (studi altrettanto capillari sull’Italia non ci sono). Il 96% ha sentito usare come offese termini riferiti all’orientamento omosessuale. Il 53% è stato oggetto di aggressioni verbali omofobe, il 23% di cyberbullismo, mentre uno su sei ha subito abusi fisici. Tre bambini o adolescenti su cinque riferiscono inoltre che gli insegnanti presenti non sono intervenuti per censurare gli omofobi. E questo in un Paese in cui l’omosessualità, a livello sociale, è molto più accettata che in Italia.

Nel nostro Paese la situazione è ancora più difficile perché si parla poco anche di omofobia, soprattutto nelle scuole (la ricerca inglese dimostra anche che il bullismo omofobico è più basso negli istituti in cui gli educatori affermano esplicitamente che questo comportamento è sbagliato). Un tempo per dire tutto questo non c’erano nemmeno le parole, figuriamoci la consapevolezza. Nella sua clip per Le Cose cambiano Giovanni Battista, che oggi è adulto, racconta di essere stato lasciato solo di fronte alle angherie dei compagni: «Le cose di cui ho sofferto maggiormente sono stati gli scherzi, gli insulti, fino ai contrasti fisici a scuola», dice. «Gli insegnanti spesso erano assolutamente complici del clima intimidatorio». Un tormento, che gli è costato anche la bocciatura: «Non avevo più il coraggio di andare a scuola».
 


Oggi la situazione è migliorata, ma ci sono ancora troppi insegnanti che non sanno fornire supporto alle vittime del bullismo anti gay. Lo conferma il professor Burgio, che per il suo libro Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità (Mimesis, 2012) ha intervistato numerosi adolescenti. «L’atteggiamento dei docenti è fondamentale: basta che facciano una battuta su una collega o sui gay perché forniscano un modello ai ragazzi. Come il professore di scienze di cui mi ha riferito uno studente: spiegando i cromosomi, ha commentato rivolto all’alunno gay: “Lui ce li ha confusi”. Un frase del genere rafforza gli atteggiamenti denigratori, poi il bullismo viene di conseguenza».

 

Una questione di genere: la crisi dei maschi

Per Burgio la questione infatti è soprattutto un problema di modelli culturali: il bullismo omofobico è una reazione a un’identità maschile debole. «È un modo per rispondere ai dubbi su cosa significa essere uomini – dice Burgio – Ha lo stesso significato delle domande su quanto ce lo devono avere grande. Gli adolescenti dimostrano di essere maschi “normali” con atteggiamenti di iper-sicurezza e aggressività, per “contrasto”: trattando con disprezzo donne e gay», afferma. Ed è per questo motivo che gli interventi classici contro questo fenomeno hanno poca efficacia: «Di solito sono incentrati sull’educazione alla diversità: insegnano ad accettare l’altro, con una sorta di “volemose bene” », dice Burgio. Ma il bullismo risponde a un bisogno molto più profondo: «Se il ragazzino si deve mostrare maschio e normale (in amore e nel sesso) gli interessa di più del progetto sulle differenze e del rischio di essere sospeso».

Non è un passaggio ineliminabile, ma si può superare solo con una migliore educazione alle relazioni di genere, soprattutto a scuola, che è il luogo in cui viene messa in atto la maggior parte di questi comportamenti. «Se chiediamo agli adolescenti chi è l’uomo per eccellenza, dicono Superman o Rambo, non Gandhi. L’uomo virile è sempre giovane, forte, muscoloso. Il modello è ancora, e solo, l’eroe guerriero. Alle ragazze va meglio, da un lato perché la scuola è un luogo molto femminilizzato, dall’altro perché c’è stato il femminismo, che ha aperto la discussione sui molti modi di essere donne». Eppure nei programmi scolastici le occasioni per educare a una virilità più ricca non mancherebbero. «Bisognerebbe parlare di vecchi come Gandhi, di un grande scienziato sulla sedie a rotelle come Stephen Hawking; dire che Leonardo Da Vinci era gay», conclude Burgio. Scoprire che ci sono tanti modi di stare al mondo farebbe bene a tutti. Il compito educativo della scuola alla fine consiste anche in questo: aiutare i ragazzini e le ragazzine a capire chi sono, senza vergogna.