A che servono i convitti nazionali

I convitti nazionali hanno raggiunto il loro massimo splendore in epoca fascista. Dichiarati “enti inutili”, ma mai aboliti, attraversano oggi una nuova stagione di vitalità. Più casuale che orientata da  chiare scelte di politica scolastica. Offerta formativa, risorse e risultati degli studenti

di Stefano Andreoli, La Voce.info 14.6.2013

LA STORIA DEI CONVITTI

I Governi spesso emanano leggi che prevedono l’abolizione di “enti inutili”, ma poi non riescono ad attuarle. Il caso dei convitti nazionali è un esempio interessante del perché sia così difficile passare dal dire al fare.
Secondo un dossier Uil del gennaio 2008, i convitti nazionali sono trentanove, distribuiti in tutte le Regioni italiane, con un totale di 13.768 utenti e una media di 353 persone per ciascun convitto nazionale. (1)
La legge 244/2007 art. 2 comma 642 prevedeva che “Con decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il ministro della Pubblica istruzione, sono individuati e posti in liquidazione i convitti nazionali (…) che abbiano esaurito il proprio scopo o fine statutario o che non risultino più idonei ad assolvere la funzione educativa e culturale cui sono destinati”. A distanza di quasi sei anni, quella disposizione è rimasta inattuata.
Secondo il legislatore del 2007 vi sono alcuni convitti nazionali che sono ormai inutili e vanno pertanto liquidati. Altri, invece, hanno ancora una funzione e vanno mantenuti in vita.
Come distinguere i capri dagli agnelli? Sembrerebbe semplice: quelli che hanno pochi iscritti evidentemente non incontrano più il favore delle famiglie e dunque possono essere chiusi. Quelli che hanno molti iscritti devono rimanere aperti.
Ma se si approfondisce un po’ la questione, ci si accorge che esisteva già una norma di questo tipo: il Testo unico in materia di istruzione (decreto legislativo 297/1994) all’art. 52 prevede “la graduale soppressione (…) dei convitti nazionali (…) che accolgono meno di 30 convittori o semiconvittori” (questi ultimi sono gli studenti che passano il pomeriggio in convitto ma poi vanno a cenare e a dormire a casa loro).
Forse il legislatore del 2007 voleva alzare la soglia di sostenibilità da trenta iscritti a un numero più elevato, da determinare tenendo conto delle condizioni locali. Un convitto nazionale di una grande città come Roma o Torino svolge probabilmente una funzione diversa rispetto al convitto di una piccola città come Sondrio o Lucera (provincia di Foggia), e fissare una soglia di sostenibilità unica per tutti probabilmente non ha molto senso.
Ma prima di addentrarsi nelle specificità locali, bisognerebbe chiedersi quale sia in generale la “funzione educativa” dei convitti nazionali. Il Testo unico del 1994 è molto generico (articolo 203: “I convitti nazionali hanno per fine di curare l’educazione e lo sviluppo intellettuale e fisico dei giovani che vi sono accolti”) e all’articolo 205 rimanda, in attesa di un nuovo regolamento (mai emanato), ai decreti di epoca fascista.
La riforma Gentile (in particolare il regio decreto numero 1054 del 1923) dava grande risalto ai convitti nazionali i quali, sebbene esistessero già nell’Ottocento, hanno avuto il periodo di massimo splendore proprio nell’epoca fascista: attraverso di essi il regime tentava di erodere lo spazio tradizionalmente occupato da istituzioni educative cattoliche.
Nel dopoguerra i convitti nazionali hanno svolto una funzione più in linea con la nostra costituzione repubblicana: quella di agevolare l’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione a chi abitava in piccoli centri, lontani dalle scuole. Dagli anni Cinquanta in poi anche questa funzione è andata declinando, per il miglioramento dei trasporti, l’espandersi della rete scolastica e il progressivo abbandono delle campagne.

QUAL È IL LORO RUOLO?

I convitti nazionali nel tempo hanno così subito una profonda metamorfosi. Una volta si caratterizzavano soprattutto come il luogo dove i “convittori” trascorrevano il loro tempo extrascolastico: a parte la scuola elementare che era interna, i convittori frequentavano normalmente scuole esterne e rientravano in convitto per pranzare e trascorrere il resto della giornata e la notte. Ora invece assomigliano a scuole con il tempo prolungato: quasi tutti gli iscritti sono “semiconvittori”, cioè dormono a casa loro e trascorrono in convitto un tempo più o meno coincidente con quello di una giornata lavorativa media (dalle 8 alle 17,30-18) frequentando al mattino le scuole interne ai convitti stessi, mangiando nella mensa e restando poi a studiare e a svolgere attività formative e ricreative.
In assenza di interventi legislativi che indicassero quale funzione educativa dovessero svolgere, i convitti nazionali si sono dovuti reinventare un ruolo. I “rettori” (così la riforma Gentile chiamava i presidi di queste istituzioni, e il termine ci dice l’importanza che avevano in epoca fascista) più intraprendenti hanno introdotto nella loro scuola una “sperimentazione” ritagliata dal ministero su misura per loro e sono riusciti a far salire le loro scuole nella classifica di quelle più ambite. (2)
I convitti dispongono di due risorse che le altre scuole non hanno: il personale educativo e “ausiliario” (cuochi, commessi, e altri), pagati dallo Stato per assistere gli allievi nel pomeriggio e durante il pranzo, e le rette pagate dalle famiglie (mediamente 1.500 euro secondo il dossier Uil, in parte coperte da borse di studio assegnate dall’Inpdap ai propri iscritti, o dagli enti locali), che servono non solo a coprire i costi della mensa, ma anche a migliorare l’offerta formativa (ad esempio pagando docenti esterni per approfondimenti sulle materie di studio), a ristrutturare i locali scolastici e ad acquistare le attrezzature didattiche più avanzate. (3)
È vero che ormai tutte le scuole tendono a chiedere alle famiglie il versamento di contributi, ma si tratta di importi dell’ordine delle decine o al massimo di cento o duecento euro all’anno, e anche per tali importi i presidi vanno incontro alle proteste delle associazioni di consumatori e alle reprimende del ministero, che ha più volte evidenziato che eventuali contributi possono essere richiesti solo a titolo volontario. I convitti invece non hanno di questi problemi: possono imporre il pagamento delle rette e mandare via gli studenti che non pagano quanto stabilito dal consiglio d’amministrazione del convitto.

È questa dunque la funzione specifica dei convitti nazionali ? Quella di essere scuole più belle, in grado di offrire una offerta formativa migliore e più ampia, grazie alle maggiori risorse umane e finanziarie di cui dispongono ?
Se così è, questa specificità non sembra il risultato di una scelta deliberata del Parlamento o del Governo. Sembra piuttosto il risultato quasi casuale della combinazione di vecchie disposizioni di epoca fascista e dell’intraprendenza di alcuni rettori che hanno saputo sfruttare i vantaggi offerti da tali disposizioni.
Un’altra domanda sorge spontanea: i convitti riescono, grazie a queste maggiori risorse, a raggiungere risultati migliori delle altre scuole ? Dalla ricerca della Fondazione Giovanni Agnelli di marzo 2012, che mette a confronto i risultati al primo anno di università dei diplomati di licei e istituti tecnici in alcune Regioni italiane, sembrerebbe di no: i convitti si collocano per lo più nella parte media della graduatoria. (4)

(1) Si veda e qui (in particolare a pag. 16).Del tutto simili ai convitti nazionali sono i sei educandati (3.763 utenti per una media di 627 a istituzione): originariamente i convitti erano destinati solo ai maschi e gli educandati alle femmine, ma ormai entrambi accolgono studenti di entrambi i sessi. Qui, invece, non si prendono in considerazione i convitti annessi agli istituti tecnici e professionali, che hanno un regime giuridico molto diverso, e i convitti per sordi.
(2) La “sperimentazione” è quella di liceo classico europeo, elaborata negli anni Novanta dal ministero della Pubblica istruzione e da alcuni rettori, e diffusasi poi in molti convitti (pag. 103 e ss.). È una delle pochissime sopravvissute alla razionalizzazione operata con la riforma Gelmini, che ne prevedeva il riordino con un regolamento di cui al momento non si sa nulla (art. 3 comma 2). Per accedere ai convitti di Roma, Napoli e Torino occorre superare dei test di ingresso:
http://www.convittonazionaleroma.com/2011/11/22/regolamento-prove-di-rilevazione-competenze-in-ingresso/
http://www.convittonapoli.it/test-dingresso-anni-precedenti/
http://liceo.cnuto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=153%3Atest-ingresso&catid=14%3Ainformazioni&Itemid=52
Gli iscritti ai convitti (inclusi quelli annessi agli istituti tecnici e professionali) sono aumentati del 17 per cento tra il 2007/08 e il 2012/13 (vedi il citato dossier Uil, pag. 13, e il decreto interministeriale n. 5 dell’8/2/2013). Limitando il confronto ad alcune province in cui sono presenti solo convitti nazionali ed educandati (Genova, Milano, Cagliari, Prato, Parma) l’aumento risulta del 32 per cento. Solo una piccola parte dell’aumento è attribuibile alla maggiore propensione all’istruzione liceale manifestatasi negli ultimi anni.
(3) Ad esempio, nell’Educandato Setti Carraro di Milano la quota della retta d’iscrizione annuale destinata a coprire i costi della mensa (esclusi i costi del personale, che viene pagato dallo Stato) è di 1.023 euro. La quota restante (52 di tassa di iscrizione, più 564 di “retta di frequenza”, più nella scuola secondaria 180 di “contributo per spese amministrative e didattiche”) serve a coprire le “spese di gestione” e i costi della “frequenza scolastica” e dell’ “assistenza pomeridiana”, escluse le attività facoltative (gite, corsi di strumento musicale etc.). Vedi qui. Occorre precisare che in alcuni convitti ed educandati le rette vengono utilizzate anche per pagare le utenze (riscaldamento, energia elettrica, telefono, acqua) che invece nelle altre scuole sono sempre a carico dell’ente locale (il comune per le scuole del primo ciclo, la provincia per quelle del secondo ciclo).
(4) Si veda qui.