Non chiamiamola scuola

di Mariangela Galatea Vaglio Letterina A.S.SI. n 352 del 21.2.2013

La scuola è il posto dove si va per imparare. È organizzata in lezioni, quadrimestri, attività di laboratorio, corsi vari: a fine quadrimestre ed a fine anno si danno i voti, si decide chi passa al livello successivo oppure si ferma ad approfondire un po’ perché ha bisogno di più tempo.

Ha un suo calendario, che è diverso da quello delle altre attività per vari motivi: ferma le lezioni d’estate due mesi (dal 30 giugno al 1 settembre, perché prima anche se le lezioni sono terminate ci sono gli esami di licenza, di maturità e di riparazione) per motivi climatici, perché le aule scolastiche quasi sempre ricavate in edifici vecchi o in prefabbricati che già a fine maggio si trasformano in piccoli forni, e fare lezione a 26/30/35 ragazzini stipati senza aria condizionata e con 35/40 gradi non è umano, oltre che inutile.

Ecco, questa cosa qua è scuola, e i professori che insegnano in essa sono degli specialisti della loro materia: vale a dire che io che insegno italiano sono abilitata per quello e quello so fare. Non è nelle mie competenze saper organizzare giochini e animazioni, o fare la baby sitter a torme di dodicenni in palestra o in giardino. Io insegno italiano. Il che vuol dire che se dovessi fare io un mese di lezioni in più, farebbero con me quello che fanno per il resto dell’anno: grammatica e letteratura, lezioni in classe e temi. Con 40 gradi, sciogliendosi ed essendo mortalmente stanchi, quindi capendone assai poco (anche perché sarei mortalmente stanca e sciolta anche io). E ho bisogno, per programmare un corso serio, con lezioni ben organizzate, anche di sapere quanti alunni ho, non che gli alunni mi arrivino, per esempio, “su base volontaria” delle famiglie, il che può voler dire un giorno sì e due no, oppure che non vengono magari proprio quegli alunni a cui servirebbe approfondire perché le famiglie possono andare in vacanza, mentre restano con me quelli più bravi che si meriterebbero il riposo.

Se il Senatore Monti mi dice che lui vuole tenere le scuole aperte anche d’estate per venire incontro ai desideri e ai problemi delle famiglie lavoratrici sono d’accordo: ci vorrebbe un progetto nazionale per fare questo, e le attività di questo enorme “centro estivo” potrebbero tranquillamente essere organizzate anche nelle scuole (o nei parchi pubblici, o negli edifici dello Stato, o nei Musei, se è per questo). Ma questa roba qua, cioè organizzare delle attività per ragazzini che non hanno i genitori a casa perché lavorano e quindi hanno bisogno di un servizio di babysitter gratuito e pubblico non è scuola. È altro, un servizio pubblico alle famiglie, che va pensato autonomamente e con personale formato (animatori, educatori, etc.) per fare quel tipo di attività là, che è diversa dall’insegnamento di una materia specifica in un contesto scolastico. Perché io, ripeto, insegno italiano: non so fare corsi di ceramica, di teatro, organizzare tornei di calcetto, camminate in montagna. Ci saranno colleghi in grado di farlo, ma allora vanno pagati a parte, perché fanno una attività propria e diversa dall’insegnamento stesso. Ci saranno magari ragazzi giovani e disoccupati con queste competenze che potranno essere pagati e assunti per questi centri estivi.

Ma ripeto, non chiamiamola “scuola”. È un’altra cosa, e non va confusa con la scuola stessa. Riconoscerlo è il punto fondamentale per evitare di fare pasticci e anche riconoscere lo specifico e la qualità dell’insegnamento. Perché se passa l’idea che il docente è quello che può fare l’insegnante d’inverno, ma anche il semplice baby sitter d’estate (e già che c’è anche dare una spazzatina all’atrio quando va via alla sera, così risparmiamo pure un bidello), ne viene fuori l’idea che la scuola in toto sia non una istituzione che deve istruire, ma un semplice parcheggio dove lasciare i figli per tutto l’anno, ed il fatto che poi i figli imparino qualcosa o no diventa un particolare ininfluente.