
Quello che le parole non dicono.
La scuola nei programmi elettorali
di Girolamo De Michele Carmilla,
4.2.2013
Venditore. Almanacchi, almanacchi
nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
(Giacomo Leopardi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggere)
Premessa*
Mi sono preso la briga, da conoscitore delle cose di scuola, di
leggere i programmi elettorali del centro-sinistra sulla scuola. Ho
preso appunti sulle questioni che a me sembrano di maggior rilievo
(per un confronto sinottico generale si può vedere
qui o
qui), e ne ho ricavato questo testo, che spero sia esauriente.
Lascio ai lettori interessati il giudizio, senza dare (ci
mancherebbe) indicazioni di voto: con chi ha davvero a cuore la
difesa della scuola, ci si vede nelle lotte.
0. Introduzione
L'esame dei programmi elettorali che possono in qualche modo
riguardare gli elettori di sinistra [1] può dare, a
una prima lettura, l'impressione di un libro delle favole, dal quale
mancano solo le montagne di parmigiano, i fiumi di vernaccia e le
vigne legate con le salsicce.
A una lettura più attenta, l'impressione di un paese del Bengodi
prossimo venturo cede il passo a diversi argomenti di
preoccupazione: dietro le facili promesse ci sono facilonerie,
lacune, improbabilità, omissioni. Soprattutto, preoccupa la
comprensione che gli autori dei diversi programmi sembrano avere
della scuola italiana: che è un sistema di circa nove milioni di
cittadini, tra studenti, insegnanti e lavoratori non docenti,
funzionari e dirigenti (senza contare i genitori, circa 1/6 della
popolazione nazionale), governato da un sistema di leggi molto
complesso. Come vedremo, uno dei punti più problematici dei diversi
programmi è la definizione di cosa, esattamente, si vuole cambiare:
ovvero, a partire da quale norma o riforma si vuole invertire la
direzione.
Un secondo problema, tutto politico, è la relazione che si
istituisce tra il ministero Gelmini e il ministero Profumo.
Francesco Profumo non è venuto giù dal Monviso con la piena: è un
cosiddetto tecnico in quota PD, come in quota PD sono stati i suoi
viceministri "tecnici" Rossi Doria e Ugolini; e del PD è Manuela
Ghizzoni, dal 2012 presidente della Commissione Cultura e Istruzione
della Camera. Il governo Monti, inoltre, ha governato con una
maggioranza che comprendeva il PD (SEL non era rappresentata in
parlamento, come pure PC, il PdCI e i Verdi, confluiti assieme all'IdV,
che era all'opposizione, in Rivoluzione Civile); e alle linee-guida
del governo Monti è ispirata l'affermazione della carta d'intenti
Italia. Bene comune, sottoscritta dai candidati del PD, di SEL,
nonché da alcuni candidati di RC:
«Appoggiare l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e
istituzionale che nei prossimi anni si renderanno necessarie per
difendere la moneta unica e procedere verso un governo
politico-economico federale dell’euro-zona».
Tra i provvedimenti di maggior rilievo che il governo-Monti ha
adottato, c'è stata la modifica dell'art. 81 della Carta
Costituzionale, con l'introduzione dell'obbligo del pareggio di
bilancio (legge costituzionale 1/2012), che avrà attuazione dal
2014. Il che chiama in causa – ed è inevitabile – lo sfondo della
crisi del capitale globale, su cui si muoveranno le politiche
prossime venture. Mi riservo di intervenire su questo punto – che è
quello davvero "strutturale" – alla fine: ma segnalo fin d'ora che
una disamina critica del programma del PD, fatta da un ottimo
conoscitore di cose scolastiche, nonché persona di scuola (le due
cose non sempre vanno a braccetto), evidenzia nei limiti di spesa
uno dei punti di maggiore debolezza del programma del candidato
premier Bersani [2].
1. Quando inizia lo sfascio della scuola
pubblica?
Per poter «avviare un’opera di ricostruzione vera e propria»
[L'Italia giusta. Programma, d'ora in poi PD-IG] è necessario
fissare il punto d'inizio della sequenza normativa che ha ridotto la
scuola nelle attuali condizioni. Ma non è facile.
Il programma PD-IG contiene una frase quantomeno improvvida: «La
scuola e l’università italiane, già fiaccate da un quindicennio di
riforme inconcludenti e contraddittorie, hanno ricevuto nell'ultima
stagione un colpo quasi letale». Se con "ultima stagione" si intende
(e non può che essere così) il ministero-Gelmini, il giudizio sulle
"riforme inconcludenti e contraddittorie" coinvolge non solo
l'operato del ministro Fioroni, ma anche le riforme di Luigi
Berlinguer – l'autonomia, ma anche il nuovo esame di Stato, la
parificazione tra scuole pubbliche e private, l'avvio della
valutazione (i Progetti Pilota di Vertecchi e la creazione
dell'INVALSI). Un lapsus, forse, dal momento che il documento
L'Italia giusta. Il futuro si prepara a scuola [d'ora in poi PD-Sc]
afferma che «l'autonomia delle scuole, che è la più importante
riforma degli ultimi 13 anni, è stata voluta da Luigi Berlinguer e
dal governo di centro-sinistra».
Al netto di questa "svista", il programma del PD sembra concordare
con gli altri programmi: PD-Sc inizia la cronologia dello sfascio
col governo Berlusconi 3, per proseguire poi col governo Monti, del
quale ha votato tutti i provvedimenti.
Il punto è, però, che i problemi della scuola non sono iniziati con
la riforma-Gelmini, ma hanno una radice ben più lontana, di cui
nessuno sembra accorgersi: la privatizzazione del rapporto di lavoro
attuata con la riforma-Cassese (dlgs 29/93) e confermata dai
successivi provvedimenti di riforma della pubblica amministrazione
firmati da Bassanini (dl 165/01).
Cosa significa essere un pubblico dipendente con contratto di
diritto privato? In sintesi (per un'analisi più tecnica rimando
qui), che il lavoro dell'insegnante non ruota attorno al fine
del suo compito (che sarebbe prescritto dalla Costituzione), ma a
uno scambio alla pari tra funzioni lavorative e salario. Per effetto
di questo rapporto privatistico, il contratto di lavoro degli
insegnanti prevede (all'art. 29) un elenco di funzioni che è
obbligatorio svolgere, alle quali corrisponde un certo salario. Ma
queste funzioni non esauriscono quello che serve alla scuola per
essere "costituzionale": al di fuori di questo articolo ci sono una
serie di compiti (corsi di recupero, progetti, attività
extracurricolari, coordinamento dei consigli di classe e via
dicendo) che sono essenziali, che in qualche caso la scuola è
obbligata a porre in atto (ad es. i corsi di recupero), ma che non
sono un obbligo di servizio, e quindi si reggono sulla libera
volontà del docente di fare una sorta di straordinario (lo stesso
vale per il lavoratore non docente che cura l'apertura, la
sorveglianza e la pulizia della scuola in orario pomeridiano o
serale).
È come se lo Stato, dopo aver pagato il salario, mettesse sul tavolo
un sacchetto di monete e dicesse: questi sono i pupazzi, con questi
dovete fare il presepe. Non c'è alcuna norma che obblighi lo Stato a
fornire risorse adeguate, piuttosto che le sole risorse dichiarate
disponibili: se di anno in anno da quel sacchetto mancano sempre più
monete, sta a gli insegnanti fare il presepe senza pastori, e magari
con un solo re Magio senza cammello. Dopo tutto, non è un obbligo di
servizio fare il presepe a Natale.
Finché non si riforma il carattere privatistico del rapporto di
lavoro dell'insegnante, ci saranno sempre alcune attività
gerarchicamente inferiori, e quindi vincolabili alle risorse
erogate; da qui i deliri, o le improvvisazioni, sull'aumento
(volontario o meno) dell'orario di lavoro dell'insegnante. Il
ripristino dell'organico funzionale chiesto da PD-Sc e da La nostra
Rivoluzione Civile [d'ora in poi RC], o l'apertura delle scuole
«tutto il giorno, tutto l’anno e per tutta la vita» (PD-Sc; ma in
precedenza, Scuola. Guardiamo al futuro, ottobre 2010) sarebbero in
caso contrario di difficile realizzazione, e la loro permanenza
sarebbe vincolata alla volontà dei singoli governi di stanziare
fondi supplementari, o all'andamento della crisi economica. Ma anche
il «Tornare alla Costituzione» di RC è, in questa situazione, un pio
desiderio. Quanto ai programmi di Sinistra, Ecologia e Libertà
[d'ora in poi SEL] e del Movimento 5 Stelle [d'ora in poi M5S], il
riferimento costituzionale è assente dai loro programmi scolastici:
SEL parla genericamente di una scuola che «deve formare alla vita
[per] esercitare un ruolo preminente nell’organizzazione della
società, della produzione e della formazione delle generazioni», M5S
non si prende la briga di dire a cosa serve, o dovrebbe servire, la
scuola.
In altri termini: se la scuola ha una finalità "pubblica", il
rapporto di lavoro deve tornare ad essere pubblicistico. Questo
significa che, una volta individuato il fine, lo scopo della scuola,
lo Stato individua tutte le funzioni necessarie alla piena
realizzazione di questo scopo, ne stabilisce costi e risorse, e in
base a questo assegna incarichi, organici e quant'altro; nel caso di
un rapporto privatistico, fondato un rapporto di lavoro volontario e
strettamente personale, il rapporto di lavoro è un angusto orizzonte
giuridico «che costringe a calcolare con la durezza di uno Shylock:
non avrò per caso lavorato mezz’ora più di un altro, non avrò
guadagnato un salario inferiore a un altro?» [3].
Mi rimane inspiegabile come questa scuola di Shylock possa essere,
eticamente prima ancora che giuridicamente, compatibile con queste
parole: «Immaginiamo la scuola come luogo fondante di comunità, dove
oltre ai necessari insegnamenti curricolari ci si può fermare il
pomeriggio per studiare, da soli o in compagnia, trovando libri e
computer che a volte gli studenti non hanno a casa, dove si può fare
sport, suonare, recitare, imparare le lingue» [PD-Sc]. E
ricordiamoci che si vuole questo insegnante-Shylock essere
sottoposto alla valutazione-Invalsi: «non avrò preso un punteggio
inferiore, non sarò stato scavalcato in classifica da un altro?».
Ma nessuno degli schieramenti mette in discussione la natura del
contratto di lavoro del personale scolastico, e il PD fa addirittura
l'elogio delle riforme Cassese e Bassanini [4].
Da questa aporia discende la proposta del PD, in tutta franchezza
demenziale, di un orario di lavoro a due velocità: obbligatorio a 18
ore, facoltativo per un supplemento pomeridiano (con fumosissime
finalità, peraltro). A parte l'impossibilità pratica (quali e quante
scuole hanno spazi attrezzati per questa funzione pomeridiana? Come
si fa a garantirla se anche le prestazioni extra-orario dei bidelli
sono facoltative?), dove andrebbe a finire la collegialità, se
alcuni docenti sono a scuola 18 ore, e altri 40 [5]?
Ma soprattutto: questa proposta è offensiva nel momento in cui
disconosce il valore in primo luogo orario del lavoro che i docenti
svolgono a casa, che porta il carico di lavoro complessivo a oltre
1.750 ore annue, il più alto nel pubblico impiego [clicca sulla
tabella a sinistra ingrandirla]; e, soprattutto, perché considera (Cassese
e Bassanini placet) il lavoro dell'insegnante in base non al suo
valore intrinseco, ma al numero di ore misurabili. Il che è coerente
con la natura privatistica del rapporto di lavoro, ma contraddice la
volontà di una scuola «che deve realizzare il "compito" che l'Art. 3
della Costituzione affida alla Repubblica» [PD-Sc], e apre la strada
a future distorsioni: una volta che i docenti sono a scuola,
facciamogli fare di tutto!
2. Abrogare la riforma Gelmini?
Rivedere la riforma-Gelmini: su questo tutti i programmi sembrano
convergere.
«La controriforma delle Gelmini [è] il più grande tentativo di
distruzione del sistema di formazione pubblica e di demonizzazione
degli insegnanti» [SEL]; «il Governo di centrodestra non ha
affrontato i problemi cronici del sistema scolastico italiano, ma li
ha aggravati [con] scelte in direzione contraria al resto d'Europa»
[PD-Sc]; «le controriforme varate dal ministro Gelmini a partire dal
2008 hanno rappresentato il più profondo ed organico attacco alla
scuola pubblica, disegnando un sistema scolastico impoverito - nelle
risorse, nel tempo e nella qualità – di ispirazione apertamente
classista. Esse si iscrivono in un disegno, che viene da lontano, di
frantumazione del sistema scolastico e di distruzione dei suoi
fondamenti costituzionali» [RC]. Lapidario ed esplicito anche M5S:
«Abolizione della legge Gelmini» è il primo punto del programma
sull'istruzione.
D'accordo sul giudizio – invertiamo la marcia e facciamo un passo
avanti -, gli schieramenti sembrano invece avere idee divergenti sul
da farsi.
Per M5S, lo abbiamo visto, la riforma-Gelmini va abrogata; lo stesso
per RC: «vanno ritirare le riforme Gelmini».
SEL vola più basso, e propone di «reintrodurre il tempo pieno e le
ore di laboratorio che Gelmini aveva cancellato»; per PD-Sc «la
scuola non ha bisogno di grandi riforme, ha bisogno di certezze,
stabilità e soprattutto di fiducia. Fiducia dopo i tagli di
Berlusconi-Tremonti-Gelmini, dopo gli insulti ricevuti, dopo le
stagioni Moratti-Gelmini la cui direzione ideologica è stata quella
di smantellare il sistema di istruzione pubblico».
Se non ché, le proposte di PD-Sc – biennio unitario nelle scuole
secondarie superiori, ridefinizione delle gerarchie tra centro e
periferia per realizzare davvero l'autonomia, ritorno al tempo
pieno, allungamento del tempo-scuola, «una nuova governance
territoriale per migliorare l'offerta formativa puntando a istituire
Poli per l'Istruzione Tecnica Superiore che tengano insieme
l'istruzione tecnica / Professionale e la formazione professionale
(sistema integrato), le imprese, l'università e il mondo della
ricerca» - si configurano come una vera e propria riforma di
sistema.
Cerchiamo dunque di essere chiari.
La "riforma-Gelmini", che consiste in un complesso di norme, ha il
suo cuore nella riforma ("riordino") dell'istruzione superiore
[6]. Questo riordino, tagliando i curricoli resi
possibili dall'autonomia, ha vanificato l'esperienza di 10 anni di
scuola dell'autonomia e ha tagliato cattedre ed insegnamenti. Alla
permanenza o meno di questo riordino si lega la questione dei
precari e dei posti di lavoro: o si ricreano i posti di lavoro
tagliati, o si prendono in giro i precari. Inoltre, non si capisce
perché mantenere in vita un ordinamento che si valuta negativamente:
che si reputa abbia effetti dannosi sull'istruzione, l'eguaglianza
sociale, il diritto al futuro. Se invece non lo si vuole mantenere
in vita, allora non si comprende (oppure sì: a pensar male si fa
peccato, ma a volte ci si prende) la timidezza lessicale di PD-Sc e
SEL.
Va benissimo chiedere che ritornino alla scuola gli 8 miliardi di
euro tagliati in questi anni: ma per rimetterli dentro la scuola di
Gelmini, o dentro una diversa scuola?
La vera alternativa, che andrebbe esplicitata agli elettori, è tra
due opzioni:
- abrogare immediatamente (quantomeno) il riordino dell'istruzione
superiore, delle norme sul maestro unico; ritornare dunque alla
situazione del 2008, e su questa lavorare per costruire l'insieme di
riforme proposte che costituiscono di fatto una vera e propria
riforma della scuola (e allora chiamiamola col suo nome);
- avviare una legislatura di riforme, lasciando al momento immutata
la situazione, per poi modificarla in modo graduale.
La prima soluzione è una terapia d'urto, che ha il vantaggio della
coerenza, e che interviene su una situazione che tutti definiscono
grave; la seconda comporterà di fatto la permanenza, pur all'interno
di un quadro riformatore, di non pochi aspetti della riforma-Gelmini.
E allora PD-Sc e SEL dovrebbero avere l'onestà di anteporre la
chiarezza agli equilibrismi interni, e dire cosa si vuole mantenere
e cosa no, e magari in che tempi. E chi chiede l'abrogazione della
riforma-Gelmini dovrebbe dire con chiarezza in quali tempi e con
quali modalità.
Teniamo conto che ogni provvedimento di riforma va a regime dopo 5
anni, e che ogni anno di ritardo significa quindi 5+1: le grandi
riforme proposte comportano il lavoro di una legislatura, e andranno
a regime dopo altri 5 anni. Vogliamo altri 10-15 anni di Gelmini?
Io credo che preservare con ogni mezzo necessario il futuro di una
generazione abrogando senza perdere un solo giorno le leggi di
Gelmini sia prioritario: il che non significa nascondere il fatto
che questa terapia d'urto ha dei costi che vanno resi espliciti.
3. Democratizzare la scuola
Anche sul ritorno a una scuola democratica sembrano tutti d'accordo:
ad eccezione di M5S, per il quale questo obiettivo non è compatibile
con un movimento "né di destra né di sinistra" (o forse perché non
ne sanno molto). «Vogliamo ridare ruolo e poteri agli organi
collegiali a tutti i livelli per un governo democratico e
partecipato delle scuole e dell'intero sistema», si legge in RC; per
SEL «è indispensabile garantire Organi Collegiali democratici,
aperti, che abbiano pieno riconoscimento e diritto d’intervento
nella didattica e negli aspetti organizzativi»; PD-Sc prefigura «un
sistema di istruzione secondaria capace di fornire agli studenti una
solida e unitaria cultura generale perché possano esercitare il
diritto di cittadinanza attiva», e avanza una contorta proposta di
decentramento gestionale consistente nel «realizzare pienamente
l'autonomia delle singole scuole in campo didattico, finanziario,
amministrativo e gestionale, rafforzando al contempo la verifica dei
risultati dal parte del centro».
Come è stato da più parti notato, il linguaggio degli estensori del
programma scolastico del PD lascia molto a desiderare: ad esempio,
quando si attribuisce al "centro" (inteso come Regione, stante la
riforma del Titolo V della Costituzione, o come Stato? Non è una
differenza di poco conto) «il ruolo di valutatore a posteriori,
oltre a fissare le indicazioni nazionali (i programmi) e le
competenze richieste». Indicazioni o programmi? Possibile che la
responsabile nazionale scuola del primo partito d'Italia Francesca
Puglisi, porcellata (da "porcellum": mi si passi il neologismo) al
Senato in Emilia-Romagna senza passare dalle primarie, non conosca
la rilevante differenza tra le une e gli altri?
O quando si afferma che «il dirigente scolastico non può rimanere
senza un controllo efficace da parte del consiglio di istituto». Qui
la domanda sorge spontanea: quale consiglio di istituto?
[A destra: Francesca Puglisi] Diciamola tutta: è davvero notevole la
faccia di palta di chi fino allo scorso novembre non si faceva
scrupolo di sostenere una trasformazione dei consigli d'Istituto in
consigli di amministrazione [vedi
qui
e
qui>, limitando la partecipazione dei lavoratori della scuola e
aprendo ai privati e ai loro capitali,
offendendo gli insegnanti in subbuglio; e dopo centinaia di
pronunciamenti di collegi docenti sospendeva l'iter parlamentare
della legge Aprea-Ghizzoni-Puglisi proclamandosi "in ascolto".
Come se niente fosse accaduto, Francesca Puglisi viene porcellata al
Senato, e Manuela Ghizzoni è ancora candidata alla Camera (e in caso
di buon risultato del PD potrebbe essere rieletta), nonostante
la bocciatura dei propri elettori alle primarie del PD.
Così capita che PD-Sc non faccia parola del disegno di legge 953/12,
a differenza di RC: «la maggioranza PD-PDL-UDC si è resa
responsabile, con l'approvazione alla Camera del disegno di legge
ex-Aprea, di una ulteriore spinta verso la privatizzazione del
sistema scolastico, la sua frammentazione e la negazione della
democrazia scolastica […]. Occorre fermare definitivamente qualsiasi
progetto di privatizzazione del sistema di istruzione, come era
stato tentato dal governo Monti».
Ma PD-Sc propone una norma in evidente contrasto con lo spirito di
quella legge: perché se le parole hanno un senso, un "efficace
controllo" del dirigente scolastico da parte del Consiglio
d'Istituto significa riformare in senso democratico quest'organo
collegiale (come chiedono le altre due liste del centro-sinistra). E
allora perché non dirlo? E soprattutto, perché non chiedere scusa al
mondo della scuola, che ha dovuto pagare il costo di tre scioperi in
un mese per bloccare questa legge?
Quanto a SEL, perché non osare un filino di più chiamando il ddl
953/12 col suo nome (Aprea-Ghizzoni-Puglisi), invede di alludervi
senza fare nomi (in SEL) o chiamarla "legge Aprea" (nei "Quaderni di
scuola")? E perché il duro giudizio sul ddl 953/12 presente nei
"Quaderni" è scomparso in SEL? Per non pregiudicare future alleanze?
Ma la questione non si risolve nel solo ddl 953/12 e nella riforma
in senso democratico degli organi collegiali. Ancora Stefanel nota
che il controllo sul dirigente da parte del Consiglio di Istituto
contraddice la 150/09 (legge Brunetta) che vuole il dirigente
«controllato dallo stato, che gli fornisce gli obiettivi
contrattuali da raggiungere: come fa un dirigente ad avere due
controllori non necessariamente in armonia tra loro?»
A me (forse a differenza di Stefanel) interessa, più che
l'armonizzazione di due norme divergenti, la posizione degli
schieramenti sulla riforma Brunetta, che ha rafforzato in senso
gerarchico la catena di comando dall'alto nella Pubblica
Amministrazione, e dunque anche nella scuola, rendendo il dirigente
scolastico di fatto, più ancora che di diritto, onnipotente
all'interno delle scuole.
Cosa devo dedurre dal fatto che nessun programma scolastico chieda
l'abrogazione, accanto ad alte norme, del dl 150/2009? Che nessuno
sia consapevole dell'incidenza di questa legge sull'andamento delle
scuole? Che nessuno abbia sentito la necessità di chiedere un parere
a un sindacalista purchessia, uno di quelli che da due anni sono
impelagati nelle contrattazioni d'istituto avendo come controparte
un dirigente che esercita la capacità del datore di lavoro privato?
Persino nei programmi generali, laddove si parla di pubblica
amministrazione, non si trova nulla di più esplicito di questa
generica affermazione: «la riforma Brunetta ha dimostrato la sua
debolezza sia sul piano progettuale che su quello della gestione del
cambiamento. Anziché rincorrere perennemente la grande riforma della
PA, velleità che produce (come Brunetta dimostra) un inaccettabile
processo di centralizzazione e conduce al fallimento, pensiamo che
si debba dare continuità ai processi di riforma, attraverso una
costante e mirata manutenzione delle leggi esistenti e delle riforme
necessarie dove e quando servono» ("Pubblica amministrazione. Un
settore pubblico di qualità per far ripartire l'Italia", PD, 2011).
Che sembra voler dire: è brutta, ma non si può cambiare una legge
ogni tre anni. E quindi, per ignavia, insipienza o complicità,
prevedo che la riforma Brunetta resterà dov'è: però continueranno a
raccontarci le barzellette su Brunetta.
4. Quali fondi alle scuole private?
[A sinistra, una simpatica réclame della scuola privata "Istituto
Leopardi" di Padova] Si sa, i voti delle lobby cattoliche fanno gola
a tutti, specie a quelli che le lobby ce le hanno in casa, o hanno
aperto la porta per farle entrare (in Lombardia, ma non solo lì,
significa i voti di Comunione e Liberazione, ora che i ciellini
hanno perso la protezione politica e lanciano segnali a destra e a
manca, essendo la loro natura simile più a quella dei ratti che
abbandonano la nave che a quella dei primi martiri cristiani).
Capita così che, in un quadro di difficile reperimento dei fondi
necessari a far ripartire la scuola (e non solo lei), PD-Sc non
abbia una parola da spendere sullo scandalo dei 500 milioni
destinati alle scuole private (che poi, tra le pieghe della
finanziaria, diventano 6-700, ad esempio in forma di sussidi alla
ristrutturazione edilizia, com'è capitato alla "Libera Scuola dei
Popoli Padani" di Varese, diretta da Manuela Marrone, moglie di
Umberto Bossi). Per contro, per RC «vanno eliminati i finanziamenti
pubblici, diretti ed indiretti, alle scuole private», per M5S
«risorse finanziarie dello Stato erogate solo alla scuola pubblica».
Nessuno dei programmi spende una sola parola per dire chiaro e tondo
qual è il ruolo della Compagnia delle Opere, ovvero di Comunione e
Liberazione, tra le lobby private [7].
Ma non è facile dire: niente soldi alle private. Per attuare questo
proposito è necessario superare – ma bisogna dirlo, prima di farlo –
l'equiparazione di scuole pubbliche e "paritarie private" attuata
dalla "legge Berlinguer" 62/00 ("Norme per la parità scolastica e
disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione"), come è
scritto nei "Quaderni di scuola": «rivedere il sistema paritario
previsto dalla legge n. 62/2000, togliendo l’incostituzionale
finanziamento di scuole istituite da privati e garantendo controlli
per i requisiti di autorizzazione e di equipollenza». Queste parole,
però, non sono riportate in SEL: qual è la posizione di Vendola,
quella dei "Quaderni" (al tempo delle primarie, ottobre 2012)
contraria alla parificazione tra scuole pubbliche e private, o
quella (odierna) del programma elettorale, che non spende una parola
sull'argomento?
Senza la cancellazione (o la revisione) della "legge Berlinguer",
che peraltro confligge con l'art. 33 comma 3 della Costituzione, non
è possibile negare i fondi alle scuole pubbliche: il che comporta
quantomeno un giudizio sull'operato del ministro Berlinguer. Ma
nelle liste di RC non pochi sono i futuri, porcellati deputati e
senatori che quella legge l'hanno votata, tappandosi o no il naso:
proprio per questo chiedere parole chiare e inequivoche sembra
lecito.
In secondo luogo, la parificazione delle scuole private ha un suo
fondamento nella deformazione della riforma del Titolo Quinto della
Costituzione, ossia nel principio di sussidiarietà previsto dal
primo comma dell'art. 118: «Le funzioni amministrative sono
attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio
unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e
Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed
adeguatezza». È chiaro che la sussidiarietà di cui si parla è quella
verticale, e che il suo significato non è equivocabile: le
prestazioni verso i cittadini devono essere effettuati dall'organo
dello Stato ai cittadini più prossimo, se possibile dai Comuni.
Per contro, la sussidiarietà orizzontale, affermatasi di fatto più
che di diritto, prevede che il settore pubblico si astenga
dall’effettuare prestazioni che possono essere effettuate dal
"privato". La natura lobbistica delle scuola private cattoliche, al
tempo stesse gelose e intransigenti nel difendere le prerogative del
"privato", ma in prima fila – e spesso con cospicui supporti di
"doping elettorale" – nell'intrigarsi all’interno della gestione
della cosa pubblica, ha portato alla cessione di ampie fasce della
scuola di base – dai nidi alle materne – al sistema privato (ma a
spese degli enti locali, dunque del "pubblico").
Non per caso, una delle branche di Comunione e Liberazione è la
"Fondazione per la sussidiarietà" presieduta da Giorgio Vittadini,
già presidente della Compagnia delle Opere e consulente dell'ex
ministro Gelmini sulla valutazione.
Chi combatte i finanziamenti alle scuole private non può non avere
presente che questa tendenza alla sussidiarietà orizzontale va
contrastata. Al contrario, nei programmi del PD si trova una
generica affermazione: «l’autogoverno locale deve offrire spazi e
occasioni alla sussidiarietà, alle forme di partecipazione civica,
ai protagonisti del privato sociale e del volontariato», buona per
tutte le stagioni, a cui fa riscontro un intero paragrafo nel
programma sulla pubblica amministrazione, che afferma a chiare
lettere che «il principio costituzionale della sussidiarietà
orizzontale [corsivo mio] [è la] chiave per definire correttamente
l’integrazione tra intervento pubblico e ruolo del settore privato»,
e che «il ruolo del pubblico [è] intervenire direttamente in tutte
le circostanze in cui l’iniziativa dei cittadini non sia in grado di
soddisfare adeguatamente un bisogno pubblico». Un'affermazione che
potrebbe essere sottoscritta da Bagnasco, Casini, Binetti,
Formigoni, e che risuona ancora più forte per effetto
dell'assordante silenzio di SEL sull'argomento.
Peraltro, anche nel programma di RC il tema della "sussidiarietà"
non viene nominato: per ignoranza o per scelta tattica? Non
dimentichiamo la presenza di ex-democristiani - in primis Di Pietro
e Orlando – accanto a Ingroia [a destra, Orlando e Vittadini in
dialogo durante l'incontro
"Sussidiarietà e... città abitabile"].
Quanto a M5S, contrario al finanziamento alle scuole private: questo
punto programmatico è preceduto da quello che chiede la «Abolizione
del valore legale dei titoli di studio». Una richiesta che sarà
anch'essa né di destra né di sinistra, ma che è di sicuro del Piano
di Rinascita Nazionale della loggia P2 di Licio Gelli, e di
Comunione e Liberazione (nella persona di Giorgio Vittadini, ancora
lui!), ma anche del programma di Matteo Renzi (era l'82ma delle 100
proposte presentate alla Leopolda nell'autunno 2011).
L'eliminazione del valore legale del tutolo di studio sarebbe la
porta spalancata attraverso cui potrebbero passare le scuole
confessionali, le private, i diplomifici finalmente liberi da quegli
odiosi lacci e lacciuoli che sono i programmi, la verifica
attraverso l'esame di Stato, ecc.: vedi mai le sentine della Loggia
P2 in quali acque scaricano i loro liquami.
5. Quale valutazione?
Sulla "valutazione degli apprendimenti" si potrebbe scrivere un
intero documento: tanto vale limitarsi a segnalare le diverse
posizioni.
M5S non inserisce la valutazione nel programma, se non limitatamente
alla valutazione dei docenti universitari da parte degli studenti
(ma è cosa diversa): quello che è accaduto e accade nelle scuole, a
quanto pare, non è rilevante. O forse i docenti del M5S (saranno pur
state persone di scuola a scrivere il capitolo "Istruzione" del
programma: o no?) non si sono accorti delle lotte e dei conflitti
degli ultimi due anni.
All'opposto, RC sposa senza se e senza ma la posizione dei docenti e
degli studenti (immagino, col contributo dell'UDS, in prima fila
nelle lotte autunnali): «La libertà di insegnamento, garantita dalla
Costituzione, è sempre più esposta al rischio di interferenze
esterne ed ai condizionamenti di valutazioni come i test INVALSI.
Essa deve, invece, potersi esplicare pienamente, nell'ambito e nei
limiti delle scelte didattiche adottate collegialmente». Oltre alla
chiarezza, il programma di RC ha un altro merito: è l'unico a
nominare l'INVALSI.
PD-Sc si inerpica invece in un arduo sentiero semantico lungo un
intero paragrafo («Un moderno sistema di valutazione per una scuola
pubblica di qualità») per parlare di valutazione senza nominare
l'INVALSI, cioè l'ente creato dal ministro Berlinguer e dai suoi
consiglieri Vertecchi e Frabboni; lo stesso fa, con meno spreco di
parole, SEL.
In sintesi, sia PD-Sc che SEL sostengono che la valutazione degli
apprendimenti è necessaria («un serio meccanismo di valutazione
delle scuole è quindi un elemento necessario per migliorare la
qualità e l'equità della scuola», PD-Sc; «la qualità delle nostra
scuola va costantemente valutata e misurata. Per questo intendiamo
istituire un percorso di valutazione complessivo del sistema
scolastico», SEL; «la valutazione del sistema scolastico è un
passaggio necessario per rendere conto alla società dei risultati
ottenuti rispetto alle risorse di fiscalità generale investite»,
Quaderni di scuola); esprimono un giudizio negativo su come da
Gelmini (e i precedenti ministri? E i progetti pilota di
Berlinguer?) e Profumo è stato utilizzato l'INVALSI, attribuendo la
responsabilità agli operatori, senza mettere in discussione la reale
valutabilità quantitativa degli apprendimenti; e promettono un nuovo
sistema di valutazione (PD-Sc preannunci addirittura «l'istituzione
di un unico Istituto Nazionale per la Valutazione e la Ricerca
Educativa», dunque un nuovo ente), senza dire, se non in modo
estremamente sommario, in cosa differirà questa valutazione, che
dovrà comunque essere effettuata da un ente esterno. Stefanel fa
presente che «la valutazione è fondamentale [io su questo dissento],
ma tutti i tentativi di imporne una esterna alle scuole con una
valenza di qualche genere incontra ostacoli insormontabili».
Domanda: se gli autori di PD-Sc e SEL hanno in mano uno strumento di
valutazione efficiente, perché non lo espongono? E se non ce
l'hanno, su quali basi, constatato il fallimento della valutazione
degli apprendimenti finora attuata, sostengono che un'altra
valutazione è possibile?
Non sarà che, in coerenza a quanto previsto dalla carta d'Intenti
"Italia. Bene Comune", la valutazione deve rimanere perché "ce lo
chiede l'Europa" (ce lo chiese nello
scambio di lettere che, nell'agosto 2011, avviò la caduta del
governo Berlusconi e l'incarico a Monti)?
6. Una costituente per la scuola?
Siamo verso la fine, e c'è qualcosa che non mi torna, in questi
programmi.
Tutti quanti enunciano temi generali che, una volta declinati in
norme e regolamenti, costituirebbero una vera e propria riforma. Ma
questa riforma, chi la deve scrivere? Dietro tutti i vogliamo,
chiediamo, è necessario che..., qual è il soggetto attivo di questo
rinnovamento? Il PD-Sc arriva a prefigurare, com'è accaduto in
Francia «per riallineare le sensibilità e le interpretazioni del
compito educativo della scuola», una «grande consultazione
nazionale, coordinata da un comitato [dotato] della più ampia
autonomia».
Ricorderei che in Francia non è poi andata a finire bene: ma è la
parola "consultazione" che inquieta. Ogni ministro, quale che fosse
l'orientamento politico, ha promosso una qualche "consultazione".
Consultare è facile e democratico, soprattutto perché "ascoltare"
non implica cedere il potere costituente: consultano, ma poi fanno
di testa loro. E l'esperienza della Commissione Cultura e Istruzione
della Camera, da Aprea a Ghizzoni, non depone a favore di un diverso
orientamento.
Nel documento PD-Sc si parla di "Costituente":
«Occorre promuovere una "costituente per la scuola", se si vuole
uscire dalla rincorsa di questa o quella emergenza e sfuggire al
devastante senso comune che da troppo tempo costituisce il solo
riferimento per la politica scolastica. C'è bisogno di individuare
una nuova direzione per lo sviluppo dell'educazione, che tenga conto
del progresso della conoscenza, del mutare dei rapporti sociali,
dello sviluppo dell'economia, dei nuovi scenari aperti dalla
tecnologia. Ma occorre anche valorizzare la specificità del
patrimonio della cultura europea, all'interno della quale quello
italiano costituisce un apporto determinante. La costituente per la
scuola avrà il compito di delineare un nuovo profilo per la
popolazione del nostro paese e di indicare le condizioni che
consentiranno di realizzarlo».
Benissimo: ma una costituente costituita da chi? Dal solito manipolo
di esperti, dai portatori di interessi delle lobby, dal ceto
politico del PD che occupa il ministero ed espone il solito cartello
già visto con Berlinguer e Fioroni "Non disturbare – Stiamo
lavorando per voi"?
Grazie, no!
All'interno di ALBA, all'incontro nazionale di Parma il 1 luglio
2012, fu presentato un documento (alla cui elaborazione, pur non
essendo iscritto ad ALBA, avevo fornito il mio contributo) nel quale
si chiedevano gli stati generali dell'istruzione e della conoscenza
in questi termini:
«A noi sembra che non possa essere accettata alcuna delega, né
alcuna riedizione di ipotetici principi illuminati che calano
dall’alto processi di riforma da accettare con benevolente
passività. Che la sola modalità che possa porre in essere una scuola
come bene del comune sia una modalità di condivisione dal basso di
un processo costituente. Che si possa e si debba partire dal
rovesciamento dell’attacco in atto agli organi collegiali attraverso
un rilancio degli organi collegiali come assemblee costituenti della
scuola del comune. Che le assemblee dei docenti e dei lavoratori
della scuola – che sono organi istituzionali – possano essere
pensati come il principio di un movimento verso gli Stati generali
dell’istruzione e della conoscenza, a partire dalla redazione dal
basso di Cahiers de doléances in assemblee istituzionali o in
accampate in forma di autogestione degli spazi comuni».
Nel lungo décalage che ha portato dai movimenti come ALBA alla lista
Rivoluzione Civile, di assemblea in incontro la voce della scuola,
come quella dei movimenti reali, si è sempre più affievolita, mentre
cresceva quella dei segretari di un pentapartito di fatto (PRC, PdCI,
Verdi, Arancioni-sindaci, IdV): e queste parole non sono entrate nel
programma di RC. È un fatto, e bisogna prenderne atto.
Né ci si poteva in tutta onestà attendere un'apertura costituente
verso i movimenti - men che meno sulla scuola - da Vendola, che per
due anni ha civettato con una parte dei movimenti, battezzando
"buoni" cui far vagheggiare una seggiola in Parlamento e "cattivi"
da indicare ai gendarmi, per poi rientrare in terra consacrata:
extra ecclesiam nemo salvatur.
Come sempre, la scuola diventa un argomento sul quale tutti hanno
detto che..., a condizione che la parola e il potere costituente sia
saldamente tenuto lontano dalle mani dei lavoratori della scuola.
7. I costi della scuola
La proposta di PD-Sc chiede di «riportare gradualmente
l’investimento almeno al livello medio dei Paesi OCSE (6% del PIL)».
In realtà la media di riferimento è del 6.3% circa, e se l'Italia si
adeguasse sarebbe del 6.4%: parlando di miliardi di euro, sarebbe il
caso di essere precisi, perché poi ci sono le finanziarie da
scrivere. In soldoni, fanno circa 15 miliardi (a seconda delle
fluttuazioni del PIL, tra 14 e 16): il che significa circa 3
miliardi all'anno.
Dove prendiamo questi soldi?
Il PD-IG promette «un ridisegno profondo del sistema fiscale che
alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla
rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari», e rimetta in
moto investimenti e produttività, anche grazie a «una lotta decisa
all’evasione fiscale» (ma non una patrimoniale): ma si lascia
sfuggire, in PD-SC, un significativo «nell'attesa di una ripresa
economica del Paese che consentirà forti investimenti». Bersani ha
anche aggiunto, ridendo e scherzando [
qui], che «si deve vendere un po' di patrimonio pubblico».
Secondo SEL «attraverso il taglio delle spese per l’acquisto degli
inutili aerei da guerra F 35 possiamo recuperare risorse da
investire in un forte programma di edilizia scolastica»; più in
generale, nel programma si trovano tagli ai costi della politica e
alle spese militari (e conseguente riconversione dell'industria
bellica in «conversione ecologica dell'economia»); «politiche
fiscali eque, che contribuiscano a redistribuire la ricchezza e
rilanciare un piano europeo, un Green New Deal [contrapposto al
Fiscal Compact], che costruisca le basi per la buona e piena
occupazione, per la conversione dell’economia e dei cicli
produttivi, per politiche di welfare e di cittadinanza, per il
reddito minimo su scala continentale», «tassazione sulle transazioni
finanziarie» e «rinegoziazione del Patto di Stabilità», e sopratutto
una «vera rivoluzione fiscale [...] che consentirà alla maggioranza
degli italiani di pagare meno imposte grazie alle risorse prelevate
da chi non ha mai pagato quanto avrebbe dovuto», consistente in una
patrimoniale e una revisione delle aliquote fiscali.
RC propone una riforma della BCE che le consenta di operare «come
"prestatore di ultima istanza", comprando titoli di stato sul
mercato primario, senza sottoporre gli stati già in difficoltà a
condizioni capestro», una «vera Tobin Tax», lotta all’evasione, alla
corruzione, all’economia illegale, e un audit sul debito pubblico e
la rinegoziazione del Fiscal Compact.
Il M5S si limita a una serie di tagli (tra cui alcune grandi opere),
e in una «riduzione del debito pubblico con forti interventi sui
costi dello Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione
di nuove tecnologie per consentire al cittadino l’accesso alle
informazioni e ai servizi senza bisogno di intermediari». In altra
sede – ma vai a capire quando Grillo dice cose che intende
realizzare, e quando apre bocca tanto per arieggiare le tonsille (o
per vedere l'effetto che fa?) – Grillo ha sostenuto un referendum
(costituzionalmente irrealizzabile, ma questo Grillo non lo sa) per
far uscire l'Italia dall'euro e tornare alla lira: una battaglia che
potrebbe vederlo accanto a Berlusconi e Forza Nuova.
Parliamoci chiaro. Che ci siano tagli e spostamenti di risorse da un
settore all'altro, non sarò certo io a negarlo: ne attesta la
fattibilità anche quest'anno il
Rapporto
Sbilanciamoci 2013, e nel mio
La scuola è di tutti l'ho sostenuto, conti alla mano (e su
qualche punto mi è stata data ragione dai fatti). Ma non è certo con
i soli tagli agli F 35, o con la stanca retorica sull'evasione
fiscale che si mettono in atto politiche strutturali.
Sembra che nessuno abbia presente la vera natura della crisi: una
crisi di sistema dell'economia globale, che viene usata come un
maglio per drenare ricchezza sociale e privatizzare importanti beni
e settori "pubblici". La crisi che stiamo attraversando non è
causata da qualche improvvida decisione di un qualche ministro
incompetente o speculatore avventato, e non la si risolve con il
bravo tecnico da mettere nella stanza dei bottoni. Spostare risorse,
seppure in un'ottica di equità sociale e redistribuzione fiscale, è
un palliativo, se l'effetto ottenuto può essere vanificato da una
manovra speculativa di questa o quella Società d'Intermediazione
Mobiliare (una decina delle quali controlla due terzi dei flussi
finanziari globali) che, riallargando la forbice tra titoli italiani
e titoli tedeschi (il cosiddetto "Spread") causa un aumento dei
tassi d'interesse equivalente all'importo di una manovra
finanziaria. O alla necessità di intervenire per salvare un grosso
comune, o una regione, dalla bancarotta causata dagli interessi dei
titoli derivati. O dalla "scoperta" di titoli tossici all'interno
dei caveau contabili del sistema bancario italiano [8].
Dalla crisi si esce rovesciando le regole del capitale finanziario:
promuovendo, in accordo con Grecia, Spagna e Portogallo, una comune
strategia improntata sul diritto al default selettivo e alla
ridiscussione del debito con le grandi SIM; mettendo in discussione,
sulla base della legge sul tasso d'usura e sulla
recente sentenza che ha condannato Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan
e Depfa Bank per truffa sui derivati stipulati dal Comune di Milano
(nel 2005); introducendo nell'ordinamento italiano il "debito
odioso", ossia, secondo una moderna riformulazione, un «debito
contratto contro gli interessi dei cittadini di uno Stato, senza il
loro consenso e senza la piena conoscenza di chi siano i creditori»;
riformando l'Euro a partire da quella che Christian Marazzi ha
chiamato
"moneta del comune", cioè «quella moneta che dà espressione e
riconosce ciò che è comune nella moltitudine, diciamo così, in uno
spazio politico, sociale, demografico quale è oggi l’Europa».
Senza questo orizzonte di senso, persino proposte di buon senso come
l'audit sul debito o la ridiscussione del Fiscal Compact sono al più
ingenue illusioni. Certo, queste proposte implicano una lotta non
breve e non facile per modificare in modo radicale l'attuale assetto
economico e politico dell'Europa: e da nessuno dei programmi
esaminati si ricava questa volontà. Come sia poi possibile una
radicale riforma di senso e di strutture della scuola in un quadro
generale che resta immutato, e dunque sottoposto agli effetti della
crisi, resta quantomeno misterioso, almeno per me.
Note al testo
* Nota di metodo.
Per i programmi elettorali, faccio riferimento, per il PD,
al programma L'Italia giusta. Programma, e a quello del suo
dipartimento scuola L'Italia giusta. Il futuro si prepara a
scuola, nonché ai documenti (indicati come parte integrante del
programma) Valutazione e rilancio della scuola italiana
(Forum Politiche dell’Istruzione del Partito Democratico, agosto
2010) e Scuola. Guardiamo al futuro (ottobre 2010). Per SEL,
il programma generale (la scuola è all'interno della voce
"Formazione"), e il documento (che però non è indicato come parte
del programma) "Quaderni di scuola" (ottobre 2012); per entrambi la
carta d'intenti Italia. Bene comune, sottoscritta dai partecipanti
(candidati ed elettori) alle primarie del centrosinistra (alle quali
ha partecipato anche il PdCI, peraltro interno alla coalizione di
Ingroia); per Rivoluzione Civile La nostra Rivoluzione Civile (la
scuola è al punto 8: "Per la conoscenza e la cultura, per
un'informazione libera"); per il Movimento 5 Stelle, il programma
generale (la scuola è alla voce "Istruzione").
Per i programmi del centro-destra e della Lista Monti parlano le
politiche dei rispettivi ministri Gelmini e Profumo, che non vengono
messi in discussione.
Per i programmi di CasaPound, Forza Nuova, Destra Sociale e
Movimento Sociale-Fiamma Tricolore basta l'immagine a destra.
[1] Non considero "di sinistra" il M5S, ma tengo
presente che ci saranno elettori soggettivamente collocati "a
sinistra" che lo voteranno. In altri termini, mi interessa meno di
zero un movimento "né di destra né di sinistra", "oltre il fascismo
e l'antifascismo, il razzismo e l'antirazzismo": considero queste
affermazioni di Beppe Grillo espressione di un qualunquismo
reazionario. Ma mi interessa una parte del suo probabile elettorato,
ad esempio i grillini interni al movimento No Tav.
[2] Stefano Stefanel,
L'interessante proposta del PD sulla scuola: promessa costosa.
Stefanel, dirigente scolastico friulano, è un osservatore col quale
non sempre sono d'accordo: ma non faccio alcuna fatica a
riconoscergli una reale competenza; sulla divergenza delle nostre
opinioni rimando al nostro
"carteggio" del novembre 2010.
[3] È la nota affermazione di Lenin nel cap. 5 di
Stato e rivoluzione, ripresa più volte anche da Trotskij.
[4] «Negli anni Novanta fu il centrosinistra, con
Cassese e Bassanini, a realizzare una stagione di riforme della PA
che ha riguardato temi decisivi: semplificazioni amministrative,
disciplina della dirigenza, contrattualizzazione del rapporto di
lavoro»: Pubblica amministrazione. Un settore pubblico di qualità
per far ripartire l'Italia, Assemblea Nazionale PD, 4-5 febbraio
2011. Inopinatamente, al punto 10 dello stesso socumento si afferma
che «La dirigenza deve essere autonoma, responsabile, libera dagli
effetti negativi dello spoils system, pratica che ha prodotto una
forte immissione nel sistema di pseudo dirigenti affini alla
politica»: ma lo spoils system è stato introdotto nelle PP. AA.
proprio dalla riforma Bassanini!
[5] Stefanel, L'interessante proposta..., cit.: «Se
ci sono insegnanti a 18 ore e insegnanti a (poniamo) 40 ore dove va
a finire la collegialità? E come si integrano le ore? Inoltre nella
proposta della Puglisi c’è una evidente progressione di carriera dei
docenti, che dovrebbe essere esplicitata in forma un po’ più
organica e omogenea e non in forma così implicita».
[6] Con buona pace di PD-Sc: «la scuola secondaria
superiore, a differenza della Primaria, non è mai stata riformata,
tant'è che l'attuale impianto, anche dopo il "riordino della
Gelmini", è rimasto quello gentiliano basato su quattro ordinamenti
separati tra loro».
[7] Mi permetto di citare un aneddoto personale. In
una puntata di "Agorà", dibattendo di scuola con il segretario della
CISL Scuola Scrima, il senatore del PDL Asciutti, il giornalista (absit
invidia verbo) di "Libero" Borgonovo e la responsabile scuola del PD
Puglisi, nell'ultimo minuto ho nominato la lobby della Compagnia
delle Opere - Comunione e Liberazione [
qui, al minuto 29:20]. Come potete
verificare, Scrima (che aveva già cercato di togliermi la parola) e
Asciutti hanno immediatamente cominciato a urlarmi contro. Secondo
voi Francesca Puglisi ha speso una sola sillaba in mia difesa?
[8] Me ne sono occupato soprattuto in due testi,
NON SI PA'! Appunti di lettura sulla manovra e sul commissariamento
dell'italia
