La panca e la chaise longue
(e la valutazione)

Franco De Anna ScuolaOggi 12.2.2013

L’ultimo mio intervento sui problemi della valutazione (“Del difficile pensare alla valutazione…”) ha suscitato reazioni e commenti che molti amici mi hanno trasmesso per diverse vie. Si addensano in particolare su due argomenti: il primo è legato ad una mia affermazione (per la verità un poco tranchant) circa la semplificazione meccanicista di cortocircuitare concettualmente valutazione e miglioramento. Letteralmente scrivevo “non si valuta per migliorare, ma si valuta per decidere”. Un progetto di miglioramento è solo “una” delle decisioni possibili, conseguenti a valutazione.

Con quella affermazione volevo mettere in luce che a fronte del riscontro valutativo di non avere raggiunto un obiettivo o di averlo raggiunto solo parzialmente, ogni organizzazione deve “mettere in moto” il proprio processo decisionale e programmatorio per ridefinire la propria strategia e riformulare il proprio programma.

A parità di risorse disponibili deve cioè “ribilanciare” le proprie decisioni e ricomporre una strategia che non può che contenere obiettivi di diverso significato. Per semplificare usavo una tassonomia che comprendeva obiettivi di mantenimento/manutenzione (essenziali per la stessa sopravvivenza) ; obiettivi di innovazione e ricerca e sviluppo (la cui significanza dipende dal segmento di prodotto e mercato in cui opera l’organizzazione. E per la scuola è orizzonte essenziale); e obiettivi di miglioramento.

Se, come e quanto, il miglioramento entra a fare parte della revisione strategica dipende da molti fattori: dal grado di scostamento degli obiettivi misurato dalla valutazione (se lo scarto è piccolo il miglioramento potrebbe non essere una priorità); dalla possibilità e convenienza di ridistribuire le risorse tra i diversi obiettivi (se ho un impegno di innovazione che ha tempistiche e impegni condizionanti, la flessibilità è minima); dall’onere del mantenimento e della manutenzione dei risultati raggiunti (se le risorse disponibili diminuiscono i costi di mantenimento aumentano la loro priorità relativa), e così via.

Poiché nella ristrutturazione di una strategia, una organizzazione declina sia le misure di parametri oggettivi (le risorse per esempio) sia (e forse soprattutto) l’insieme dei rapporti e delle dinamiche interne, dei significati e dei valori scambiati nell’organizzazione, delle convenienze e delle dialettiche dei ruoli (in una parola la “cultura organizzativa” che contraddistingue come tratto identitario ogni organizzazione), ritenevo e ritengo che il meccanicismo con il quale si vuole collegare valutazione e miglioramento sia una semplificazione inaccettabile sia sotto il profilo culturale, scientifico, sia sotto il profilo della stessa problematica valutativa.

Un protocollo valutativo fondato su tale semplificazione è destinato a produrre risultati insoddisfacenti, o meglio non-risultati. (Per esempio si finisce per non capire come mai le scuole abbiano tanta difficoltà a progettare miglioramento, e le si colpevolizza. Vedi VALSIS o VSQ. E non si mette invece in valutazione la strategia pubblica dalla quale proviene il progetto, o lo si fa con argomentazioni “ideologiche”. Magari giuste, ma insufficienti a cambiare la realtà).

Per contro, se si tratta di valutare l’organizzazione, proprio l’insieme dei processi decisionali che mediano il rapporto tra esiti valutativi e progetti di miglioramento costituisce un oggetto essenziale della valutazione stessa.

Processi decisionali, significazione collettiva, dinamiche di ruolo che vi presiedono, “cultura organizzativa”, costituiscono in effetti oggetti di osservazione e valutazione essenziali nel valutare le organizzazioni. E, uscendo da metafora, ancor più se si tratta di una scuola. Di una impresa, cioè, la cui produzione è “immateriale” e costituita da servizi di cura alle persone, scambi di simboliche, cultura; nulla che trovi posto in un magazzino.

Se voglio costruire un protocollo valutativo delle scuole, di ben altro devo tenere conto che non dei numeri delle rilevazioni INVALSI e della elaborazione di un progetto di miglioramento.

E’ un compito assai più complesso rispetto al quale mi limito a sottolineare due aspetti: il primo è relativo al fatto che per esplorarlo occorre superare il livello del “dichiarato” (l’elaborazione di un progetto). In questi anni si è affermata una “retorica progettuale” capace di riempire in modo appropriato qualunque appropriata scheda progettuale, e qualunque modello formalizzato tra i tanti che circolano.(PCDA solo per fare un esempio, la cui “densità di formalizzazione” tiene spesso il posto dei processi materiali di realizzazione).
Il secondo aspetto, conseguente al primo, è che per realizzare un assennato protocollo avente tale oggetto non sono sufficienti strumenti a distanza come questionari o report. Occorre invece l’azione ravvicinata di osservatori e valutatori.

E dunque l’impegno scientifico di collocarne l’opera entro un quadro di assennati strumenti di osservazione; di formare gli osservatori stessi, di attrezzarli a controllare prima di ogni altra cosa se stessi e i difetti e i rischi che l’osservazione diretta comporta (la letteratura, in proposito, è più che abbondante).

La seconda obiezione che mi viene mossa da tanti commentatori al mio ultimo contributo è più “politica” (o lo vorrebbe essere). Ed è abbondantemente distribuita tra molti interlocutori nel dibattito sulla valutazione.

Recita in sostanza: “le scuole vivono una situazione di limitazione progressiva delle risorse; i docenti hanno stipendi ridotti; gli edifici e gli ambienti scolastici sono in degrado. Che la politica metta rimedio a tutto ciò dedicando risorse adeguate. Poi si potrà parlare di valutazione. Anzi, le risorse che comunque si impegnano nella valutazione siano dirottate a tutti questi altri scopi..”.

L’argomentazione ha una sua forza (apparente). Ma nasconde molte insidie. Se tento di rispondervi è sopratutto perché la ritengo ascrivibile a un registro argomentativo che sembra caratterizzare una polemica ed un dibattito politico generale, non limitato alla scuola, incapaci di misurarsi con una realtà che con la sua durezza ci pone di fronte a esigenze di rinnovare argomenti e linguaggi e a ristrutturare anche radicalmente le rappresentazioni di convenienze (immaginarie e reali).

Siamo un paese abituato a “distribuire” risorse, su modelli di varia disuguaglianza, ma capaci di perimetrare nidi di convenienze più o meno grandi, esentando dal misurarsi con il problema di come produrre risorse. La storia della politica delle riforme nel nostro Paese, dagli anni ’70 in poi è più che esemplificativa. Non si può riassumere qui ma si può affermare, sia pure in estrema generalizzazione, che ogni istanza riformatrice anche realizzata non ha mai costituito “ristrutturazione” di interessi, ma si è più o meno opportunisticamente sovrapposta all’esistente ricostruendo convenienze e corporatismo degli interessi: di quelli nuovi interpretati dalle riforme e di quelli vecchi a salvaguardia dell’esistente.

Insomma il “compromesso sociale” reso possibile dalla ridistribuzione delle risorse, prime tra tutte la spesa pubblica.

Si è configurato un Paese abituato ad un padre autoritario, lontano, avverso e “intoccabile” (lo Stato e la sua burocrazia, e l’attendamento cosacco delle varie corporazioni a protezione delle classi dirigenti. Per l’espressione “attendamento cosacco” si veda Gramsci) e ad una “mamma” comprensiva e generosa sempre pronta a dare un “aiutino”, (una pensione giovanile, un certificato di invalidità..) ma non a riconoscere diritti (un welfare “universale” ma alimentato sopratutto dalla fiscalità del lavoro dipendente).

E’ esattamente ciò che non è più possibile fare oggi: siamo obbligati a diventare adulti. A fare i conti con il Padre (rielaborare la Legge e il Desiderio, direbbe Lacan) ed a emanciparci da una mamma-welfare amorevole di regalini, ma senza diritti.

Le risorse sono finite e occorre spostare l’attenzione al come si producono (e non solo a come si distribuiscono). In altri termini, se si vuole: occorre destrutturate e ristrutturare un altro “compromesso sociale” che si interroghi sulla produzione e non solo sulla distribuzione delle risorse. (Per ragioni speculari, ha semantica difettosa e insufficiente il termine “sviluppo” che si usa spesso a sproposito)

Reclamare investimenti non è sufficiente (e abilita gli illusionismi di ogni promessa).

Il termine “investimento” implica una semantica che va recuperata anche solo per “capire davvero”. L’investimento (etica protestante del capitalismo?) è la rinuncia ad un vantaggio immediato per dedicarla ad una prospettiva futura. Non è l’aggiunta di qualcosa a qualcosa. E ciò è tanto più vero quanto più la “produzione” di risorse è la “questione fondamentale”.

Tra mezzi e fini c’è sempre una circolarità dialettica condizionata dallo “stato dell’arte” del contesto in cui ci si colloca: non posso progettare un ponte a campata unica lungo dieci kilometri, se la tecnologia dell’acciaio e del cemento non consentono la produzione di componenti adeguati.

Se ho a disposizione una tavola di legno potrò progettare al meglio una panca per sedermi, ma non una chaise longue alla Le Corbusier. Pur essendo quest’ultima al centro dei miei obiettivi sarà bene che badi alla panca. Se brucio la tavola di legno, sognando l’eleganza della chaise longue, starò al caldo, ma irrimediabilmente in piedi. E (oggi) devo scegliere tra le due cose.

Con un corollario fondamentale: sarà bene che, nella limitatezza dei mezzi a disposizione, la panca che costruisco non zoppichi e sia adeguata allo scopo del sedersi.

Non è nè concettualmente né eticamente accettabile rinunciare ad avere una buona panca in nome del sogno di una chaise longe, né tanto meno “predicare” l’inutilità di un lavoro di falegnameria ben fatto, in nome della superiorità della leggerezza di sinuosi tubolari metallici.

Fuori di metafora: le risorse limitate a disposizione della scuola non esentano affatto al lavoro di valutazione. Anzi, proprio tale limitatezza impone una assennata valutazione per spendere al meglio e non sprecare tali risorse, e per ricavare da esse la massima qualità possibile.

Ciò che eventualmente si risparmia (in termini assoluti e relativi, migliorando l’efficienza) può anzi diventare “investimento”. Se c’è un’etica nella politica è questa. E senza la prima c’è solo politique politicienne…

Ciò significa che l’energia che si convoglia nel negare l’esigenza della valutazione andrebbe invece convogliata (analisi critiche, proposte, partecipazione, recupero di ogni possibile risorsa) a predisporre strumenti adeguati per garantire alla valutazione il suo ruolo di strumento per “costruire la panca al meglio”, che non zoppichi e che sia la più confortevole possibile, a condizioni date.

Solo tale impostazione (etica e politica insieme) garantisce tra l’altro di individuare in modo corretto anche l’impegno di future risorse, l’assennatezza di rapporto tra mezzi e fini, l’appropriatezza delle strategie per il futuro.

La stessa forza con la quale si può affermare la necessità di ridistribuire altrimenti le risorse disponibili, non può che fondarsi s tale approccio. (L’obiettivo di “togliere ai ricchi per dare ai poveri” è assolutamente condivisibile, anche se non siamo proprio nella foresta di Sherwood. Ma la platea della condivisone sarà tanto più ampia, magari riuscendo a coinvolgere anche il “personale di servizio” o i clienti dei ricchi, quanto più la strategia di ridistribuzione sarà fondata su programmi certi, futuro sensatamente descrivibile, valutazione effettiva e stringente dei risultati).

So quale è l’obiezione successiva: lasciamo la valutazione della scuola agli insegnanti stessi, non facciamone un oggetto di spesa. Se c’è da risparmiare cominciamo proprio da lì, dal giudizio di inutilità della valutazione alle condizioni attuali.

Non voglio dettagliare numeri. Solo un esempio. Se guardiamo ai costi dell’istruzione superiore e confrontiamo quelli reali con quelli teorici (quelli che sono teoricamente misurabili sul compimento lineare del percorso scolastico previsto) si può misurare uno scarto (in più) che arriva al 30% della spesa, con distribuzioni diverse tra aree geografiche e indirizzi di studi. A tanto ammontano i costi di percorsi più o meno alterati con le ripetenze, gli abbandoni. Insomma la cosiddetta “dispersione scolastica”.

Ad essa sovrintende non questa o quella rilevazione INVALSI sui livelli di apprendimento, ma l’opera diretta della valutazione dei docenti.

Sia chiaro: nessuno scandalo. Vi sono e potrebbero essere mille ragioni per “dare ragione” di tali dati e tante responsabilità. Ma, senza voler distribuire giudizi e tanto meno colpevolizzazioni (ma è difficile astenersi dal considerare criticamente la “cultura valutativa” agita nella realtà e il suo rapporto con la cultura didattica mediamente erogata nel servizio scolastico), mi pare si debbano almeno accettare due considerazioni.

La prima: il 30% di scarto tra risorse teoriche e risorse spese realmente nei percorsi di secondaria superiore copre una quantità di denari che non si può neppure tentare di paragonare ai fondi con i quali opera l’INVALSI. Si tenga conto che il costo medio per alunno nella secondaria superiore è di circa 7mila euro annui, e che gli alunni sono quasi 2,5 milioni. L’INVALSI ha speso (nel 2011) per attività di rilevazione circa 4 milioni di euro. (I Bilanci dell’Ente sono consultabili sul sito).

Se pensassimo di ridistribuire sulle scuole i fondi spesi dall’INVALSI avremmo un controvalore inferiore a quello di una panca. (Altra cosa sono i fondi di alcuni progetti come VSQ, ma per questo vedi sopra).

La seconda: se da quelle risorse e da quelle rilevazioni scaturiscono strumenti che, quando bene utilizzati (si vedano le notazioni critiche del mio precedente intervento) consentono di innescare autoanalisi, verifiche del proprio lavoro, ipotesi di strategie di miglioramento, scelte di maggiore equità sociale nel comportamento professionale dei docenti e nell’esercizio della loro insostituibile “padronanza valutativa”, avremmo speso bene le risorse. Potremmo, inseguendo il sogno della chaise longue, evitare la realtà che la panca zoppichi.

Il risparmio rispetto alle risorse sprecate nella dispersione scolastica potrebbe essere tradotto in “investimento”. (Magari dando alla “lotta contro la dispersione” qualche strumento in più, qualche slogan in meno, e soprattutto meno possibilità di opportunismi adattativi come quello di limitarsi ad abbassare l’asticella)

Ma, sia chiaro, il precedente è solo un esempio tra i tanti possibili.

La sfida della valutazione è sempre più ampia. Le imprese lo sanno bene.

Poichè implementare qualunque protocollo valutativo costa, la sua “convenienza” è vincolata ai vantaggi (risparmi assoluti e relativi e conseguenti investimenti, controllo della qualità) che essa consente nel determinare strategie (migliorare la qualità di prodotti, processi, organizzazione).

E ciò vale a maggior ragione per la scuola, i cui costi sono coperti dalla “ricchezza pubblica” che proviene dalla fiscalità generale, e i cui prodotti (la loro quantità e qualità) hanno effetti a breve ma soprattutto lunga scadenza sull’intero sistema sociale.

La chaise longue che vorremmo non ce la regala nessuno.

E la nostra lotta per averla sarà tanto più efficace e condivisa quanto più sapremo costruire almeno una panca che non zoppichi, e quanto più sapremo resistere alla tentazione di scambiare una panca per una chaise longue. (E tanto meno tentare di “vendere” la prima come se fosse la seconda)

Il nostro impegno deve essere dunque per avere un sistema di valutazione efficace e che si misuri sull’intero complesso della politica pubblica dell’istruzione.

(Si badi: ciò vale per qualunque opzione politica si misuri con la “propria” interpretazione del bene pubblico. Sotto tale profilo l’attività di valutazione nutre “strutturalmente” il giudizio e la critica politica. Nutre la distinzione tra policy e politics).

A meno di rassegnarsi ad avere un sistema che codifica la separazione della produzione selezionata di chaise longue (il c.d. merito, la c.d. eccellenza) dall’offerta generale di panche (il diritto generale di cittadinanza all’istruzione). Magari gridando a gran voce (e indignati) che siamo per l’uguaglianza.

 

PS. All’epoca delle mie prime nozze (ehm..) mi capitò di avere in regalo una chaise longue di Le Corbusier. L’avete mai provata? E’ di una scomodità assoluta. Ci si stende ma non si sa dove mettere le braccia. Anche oggi, non ostante lo stato delle mie articolazioni, sono abituato a leggere e studiare con i gomiti sul tavolo. Meglio una solida panca, prodotta con cura di incastri e ingegnoso risparmio di materiali.