Mendicanti di cattedre. di Alex Corlazzoli, Il Fatto Quotidiano 30.8.2013 Eccomi qui a fare l’accattone. A chiedere una cattedra. Come ogni anno oggi, con altri 74 mila precari ho aspettato un posto di lavoro. Proprio così. Il mio “caporale” si chiama Stato. Il nostro datore di lavoro non sa niente di noi. Sanno solo che siamo abilitati e siamo in una graduatoria che si chiama ad esaurimento. Ci devono smaltire come se fossimo rifiuti della società. E forse per qualcuno lo siamo. Non interessa mai sapere il nostro curriculum, che cosa sappiamo fare, che competenze abbiamo. E allora quest’anno ho deciso di dire io a chi mi assume chi sono. Ho scritto questa lettera ai collocatori della scuola e oggi l’ho distribuita alla commissione che mi ha assegnato la nuova cattedra. Caro collocatore del mondo della scuola Oggi ancora una volta neanche mi hai guardato negli occhi, neanche mi hai chiesto il curriculum, non mi hai domandato com’è andata gli altri anni in questa o quell’altra scuola, non hai voluto sapere le miei competenze ma arrivato il mio turno mi hai chiamato: “Corlazzoli”. Ed io: “Eccomi. Che cosa è rimasto?”. Come se fossimo in macelleria o al supermercato. Toccava a me. Ma non sono venuto qui a comprare la carne o il pane ma a mendicare un posto di lavoro come altri migliaia di precari della cattedra. Non ce l’ho con te, hai fatto sicuramente bene il tuo lavoro ma quest’anno, a differenza delle altre volte, ho deciso di farti sapere a chi hai deciso di distribuire il lavoro. Mi sembra assurdo, infatti, che proprio nella scuola dove il nostro compito è quello di formare dei piccoli o giovani cittadini (il mestiere più delicato che esista al mondo oltre quello del medico), i docenti vengano scelti solo in base ad un elenco (graduatoria), ad un concorso fatto nel 1999 o nel 2012. Senza un colloquio, senza conoscere chi inviamo in classe. Ecco, caro collocatore. Sono un giornalista, vengo da una formazione umanista. Ho solo il diploma magistrale perché a 18 anni quando proposi a mio padre di andare all’università, lui neanche sapeva cosa fosse. Ho imparato a fare il giornalista sul campo, nelle redazioni dei quotidiani locali. Ho collaborato con testate nazionali come “L’Indipendente”, “Avvenimenti”, “Diario della Settimana” e ancora oggi collaboro con “Il Fatto quotidiano”, “Altreconomia” e “Che futuro”. Ho fondato tra l’altro un giornale nel carcere di Lodi “Uomini Liberi”. Da sette anni faccio anche l’insegnante: da precario per mantenersi devo avere non una sola occupazione. In questi sette anni come racconto ai miei bambini ho fatto il maestro giostraio: proprio come le giostre ho montato la mia tenda in tre scuole diverse. Ho insegnato storia, scienze, geografia, educazione motoria, musica, educazione all’immagine, educazione tecnologica in seconda, terza, quarta e quinta e anche in classi miste. Ho fatto, pur non avendo la specializzazione, anche il sostegno a casi gravi e meno gravi ma senza che mai nessuno mi chiedesse se avessi avuto qualche esperienza in merito. Anche se faccio il giornalista e ho scritto qualche libro (il prossimo uscirà il 10 settembre con Einaudi, “Tutti in classe”) mai nessuno mi ha chiesto: “Vuoi insegnare italiano?”. Strano, eh! Caro collocatore della scuola, non ce l’ho con te ma credo che sia arrivato il momento di non essere più indifferenti, di non considerare normale ciò che è consuetudine in questo Paese. Non posso pensare che oggi tu sia stato contento di aver distribuito lavoro in questo modo. In Italia abbiamo due possibilità: o fare ognuno il nostro mestiere senza mai occuparci degli altri o iniziare a pensare che siamo sulla stessa barca. Ecco perché ti chiedo di pro – testare, di testimoniare per una scuola diversa. Fallo come vuoi, scrivendo una lettera, usando Facebook, protestando con il tuo dirigente ma non lasciare che la barca affondi. Racconta agli altri l’assurdo mestiere che hai fatto oggi. Grazie davvero di cuore per l’attenzione e se ci darai una mano, grazie per non essere stato indifferente alla distruzione del nostro Paese. |