Il test non fa buono il prof

di Claudio Giunta Il Sole 24 Ore, 9.9.2012

Il disastro degli esami d'accesso al Tirocinio formativo attivo (Tfa) rischia di farci dimenticare perché questi esami, e il Tfa, si fanno: per selezionare e formare gli insegnanti migliori. Perciò non dovremmo perdere troppo tempo a ridere dei quesiti sbagliati e dedicarne invece parecchio a riflettere sulle modalità dell'esame e sulla sua stessa opportunità.

Riepilogo. Fino al 2009 c'erano le Ssis: o meglio, fino al 2007, dopodiché non è stato più possibile accedervi. Per abilitarsi all'insegnamento un laureato doveva, dopo l'università, iscriversi (pagando) a un corso di due anni durante i quali, attraverso lezioni e un tirocinio nelle classi, gli si insegnava ad insegnare. Le Ssis sono state chiuse, e ora c'è il Tfa, che è simile alle Ssis (anche il Tfa costa: circa 2.500-3.000 euro) ma dura soltanto un anno, al termine del quale si sostiene un esame. Chi lo passa, è abilitato all'insegnamento.

Per accedere al Tfa occorre fare non uno ma tre esami: anche questi a pagamento, tanto per fare un po' di cassa (50-100 euro). Il primo è quello somministrato dal ministero, un test con domande a risposta multipla («A chi si riferisce il Foscolo scrivendo "e l'ossa/fremono amor di patria"?», seguono quattro nomi); il secondo è uno scritto organizzato dalle singole università nelle varie città, e consiste in prove mirate: versioni di latino e greco, temi di italiano e storia, analisi di testi, eccetera. Il terzo è un esame orale.

Ora, il problema dell'esame ministeriale non sono gli errori contenuti in certe domande: sono le domande stesse. I quiz a risposta multipla sono infatti una scorciatoia che non porta da nessuna parte. Ai candidati alle cattedre nelle scuole medie e superiori si chiedevano cose come «Quando fu pubblicato in prima edizione il romanzo dannunziano Forse che sì forse che no?», «Qual è l'anno della Charte octroyée?», «Dove si trova la città di Porto Fuad?». Io insegno Letteratura italiana all'università e non avrei saputo rispondere a nessuna di queste domande, come a molte altre: avrei tirato a caso tra le quattro risposte possibili, e sicuramente non avrei superato l'esame.

Peggio per me, naturalmente. Forse, se avessi passato l'estate a rileggermi tutti i manuali, comprese le parti scritte in piccolo, ce l'avrei fatta. Ma questo è il modello culturale di Rischiatutto.
In realtà, anche se le domande fossero state più semplici, o più sensate, non sarebbero state una base di giudizio affidabile per decidere chi deve e chi non deve diventare insegnante. I futuri insegnanti dovrebbero conoscere la loro disciplina (e possibilmente anche qualche disciplina contigua) ed essere in grado di parlarne e scriverne con proprietà. Non altro. Per verificare il possesso di questi requisiti i quiz a risposta multipla non servono a niente. Servono – per ripetere il triste verbo che si è usato – a scremare.