«Dai test Invalsi una spinta all’efficienza»

«Le scuole stanno imparando a usare la misurazione
degli apprendimenti per diagnosticare le aree di difficoltà»
« Libertà agli istituti sull’utilizzo dei risultati con una sola restrizione
per evitare di pubblicare esclusivamente le performance migliori»

 Cl.T. Il Sole 24 Ore, 21.5.2012

In Italia il successo formativo dei ragazzi dipende ancora molto dal tipo di scuola che si frequenta. Anche istituti vicini, che operano nello stesso quartiere, e dotati delle stesse risorse, sono profondamente diversi «nella capacità di trasferire conoscenza ai loro allievi». Ma se fossimo in grado di eliminare queste differenze, che sono dovute tutte a fattori interni alle singole scuole, portando quelle meno efficaci ai livelli delle migliori, «avremmo fatto un passo avanti straordinario sulla strada di una scuola più efficiente». A parlare è Piero Cipollone, classe 1962, ex presidente dell’Invalsi, l’Istituto di valutazione della scuola italiana, e ora direttore esecutivo alla Banca Mondiale a Washington.

Direttore, anche l’Europa ci chiede un cambio di passo nella valutazione degli apprendimenti. L’Italia è pronta a questa sfida?
I pezzi del puzzle ci sono tutti. Abbiamo un sistema di misurazione degli apprendimenti che ormai funziona al meglio. Le scuole stanno imparando a utilizzare la misurazione degli apprendimenti come strumento di diagnostica delle loro aree di difficoltà e di supporto alla didattica. L’Invalsi sta progressivamente guadagnando il ruolo di interlocutore credibile grazie al continuo confronto con le scuole, i presidi e gli insegnanti. E i risultati si vedono. Ancora pochi anni fa l’Italia non aveva alcuna rilevazione sistematica degli apprendimenti; oggi abbiamo rilevazioni censuarie in ingresso e in uscita che coinvolgono circa 2,8 milioni di studenti, dalla primaria alle superiori.

E da quest’anno queste prove sono obbligatorie. Ciò aiuterà a renderle meno osteggiate?
Non direi che siano osteggiate. Lo scorso anno, per esempio, l’adesione delle scuole alle prove Invalsi è stata praticamente universale. Si tratta, certo, di una rivoluzione per la scuola italiana e in quanto tale provoca delle difficoltà di adattamento legittime e comprensibili. Ma le assicuro che nelle scuole dove i dati vengono portati a conoscenza del corpo docente e fatti oggetto di discussione e analisi i professori non sono affatto ostili. Anzi sostengono con forza le ragioni di una misurazione standardizzata degli apprendimenti.

Alcuni esperti dicono però che le prove Invalsi colgono solo alcuni aspetti dell’apprendimento. Non per esempio la creatività.
Le prove Invalsi misurano gli apprendimenti dei ragazzi. Per questo sono disegnate. Non si è mai pensato di misurare la creatività, compito che peraltro mi pare piuttosto difficile. C’è piuttosto ancora una grande confusione in merito a queste prove. La misurazione degli apprendimenti non è stata mai concepita come un sostituto della valutazione degli alunni e degli studenti. È compito degli insegnanti valutare gli studenti con tutti gli strumenti a loro disposizione. La misurazione degli apprendimenti attraverso una prova standardizzata è uno di questi ma è particolarmente importante perché è il solo che permette una valutazione comparativa. Inoltre la misurazione degli apprendimenti non è utile a livello di singolo studente ma assume rilievo a livello di classe o di scuola perché mette in luce quelle parti del curricolo dove un insieme di studenti presenta delle difficoltà.

Resta però il nodo di come utilizzare i risultati delle prove Invalsi. Lei sa che alcuni presidi pubblicano solo i risultati migliori?
Le scuole sono autonome. E una direttiva che uniformi i comportamenti mi sembrerebbe una violazione della loro autonomia. Io lascerei libertà alle scuole con una sola restrizione. L’Invalsi dovrebbe avere l’autorizzazione a rilasciare tutti i dati di quelle scuole che li hanno pubblicati, anche se solo in modo parziale. Questo semplice accorgimento eviterebbe una pubblicazione selettiva dei soli dati migliori.«Quando leggeranno il testo certi commentatori si ricrederanno. Due quinti dell'articolato traduce in norme l'intesa raggiunta, gli altri tre quinti riguardano altri aspetti cruciali della dirigenza, la formazione e la trasparenza. Il percorso che stiamo compiendo va ben oltre l'allineamento con le nuove regole del lavoro privato e punta a estendere la riforma Brunetta. Renderla più agevole e applicabile, dopo tre anni dalla sua introduzione. E avendo chiaro un concetto: non esiste nessun potere di veto da parte dei sindacati».