L'inglese s'impara
meglio alle elementari

Piero Bianucci La Stampa, 24.5.2012

Duecento professori del Politecnico di Milano si sono contrapposti con un documento ufficiale alla decisione del loro Rettore di ammettere nei corsi per la laurea magistrale esclusivamente lezioni in lingua inglese. E’ una prova evidente che la scelta del rettore Giovanni Azzone, motivata come apertura agli studenti stranieri e come un modo per rendere più competitivi i nostri laureati in un mercato del lavoro globale, non è scontata.

Premesso che noi «siamo la nostra lingua» e che questo fattore di identità deve rimanere fondamentale, è opportuno affrontare la questione in modo pragmatico. Non esistono dubbi sull’utilità dell’inglese come lingua-strumento. Un buon possesso della koiné anglofona – il Basic English formalizzato nel 1930 da Charles Kay Ogden – rappresenta, prima ancora che un vantaggio competitivo, una necessità vitale per i nostri laureati e per attrarre studenti stranieri nei nostri atenei. Inoltre la koiné anglofona svolge un importante ruolo nel favorire l’apertura a visioni del mondo pluralistiche e non provinciali.

Se però l’obiettivo è una vera padronanza dell’inglese, bisogna tener conto delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze in tema di apprendimento linguistico. Fin dai lavori pionieristici del neurochirurgo canadese Wilder Penfield (1891-1976), sappiamo che c’è una profonda differenza tra l’imparare una lingua straniera contemporaneamente (o quasi) con la lingua madre e l’impararla in età più matura. Ricerche più fresche, confermate da strumenti diagnostici come la risonanza magnetica funzionale (fRM) e la Pet (Positron emission tomography), ci dicono che a seconda dell’età l’apprendimento linguistico costruisce connessioni sinaptiche in regioni diverse del cervello.

Abbiamo due tipi principali di memoria a lungo termine: quella procedurale, che mettiamo in atto quando impariamo a «fare» qualcosa (per esempio andare in bicicletta) e ha a che vedere con zone cerebrali motorie, e quella semantica, che invece è legata al «dire». La memoria procedurale è la più duratura: nei pazienti con malattia di Alzheimer è l’ultima a spegnersi. Quella semantica è più esposta al logorio del tempo. Semplificando rozzamente, dalla prima infanzia fino a 7-8 anni l’apprendimento linguistico coinvolge la memoria procedurale insieme con quella semantica perché fonazione e costruzione del discorso sono inizialmente assimilabili a un «fare». Dopo gli otto anni, con strutture cerebrali ormai plasmate da nozioni grammaticali e sintattiche, l’apprendimento linguistico diventa in prevalenza di tipo astratto e teorico.

Per rispondere davvero all’esigenza del plurilinguismo, dovremmo dunque introdurre l’inglese nelle scuole dell’infanzia e non soltanto nelle primarie come avviene adesso, e perché l’operazione sia efficace occorre avere nelle scuole dell’infanzia insegnanti di madre lingua inglese. Un governo lungimirante deve puntare a questa soluzione, l’unica davvero radicale. Come utile effetto collaterale, un bambino precocemente bilingue acquisisce anche la consapevolezza che dietro parole diverse per indicare cose simili c’è una pluralità di culture e di punti vista, e questa è una indiretta educazione alla tolleranza.

L’inglese come lingua «ufficiale» nelle università offre grandi vantaggi: aiuta a competere in campo internazionale, agevola lo scambio di cattedre tra Paesi diversi, favorisce un fecondo scambio culturale tra i ricercatori. Ma nel suo uso esclusivo ci sono anche dei rischi. Il docente non pienamente padrone della lingua finirà con il semplificare le sue lezioni, con un impoverimento culturale dell’insegnamento. La diversa struttura sintattica dell’inglese potrà persino influire sui contenuti, favorendo gli aspetti tecnico-empirici a scapito di quelli teorici. Nel caso delle discipline umanistiche - letteratura, arte, musica - dovrebbe semmai essere dominante l’italiano anche in atenei posti fuori dai nostri confini nazionali. In Italia l’inglese è già la lingua di oltre cento corsi di laurea, dai Politecnici di Milano e Torino alle università di Roma, Pavia, Camerino, Catania. Perché non partire dall’analisi di queste esperienze per poi decidere i correttivi e gli sviluppi più opportuni?