SCUOLA

Il ddl Aprea si "perde" tra Trento e Roma.
Addio autonomia?

Fulvio Cortese il Sussidiario 21.5.2012

Una nuova riforma sta per investire il mondo della scuola. Ciò che resta, infatti, del ddl Aprea, che risale, nella sua originaria formulazione, al 2008, è ormai pronto per l’approvazione del Parlamento, evento che avverrà in Commissione deliberante, lontano, quindi, dai possibili clamori dell’assemblea. Ma si tratta di vera riforma?

Questo è un interrogativo che, quando si ragiona sulla legislazione scolastica e sulle sue molteplici e ricorrenti evoluzioni, occorre sempre ricordare. Il più delle volte ci si trova di fronte, nella migliore delle ipotesi, ad operazioni micro-chirurgiche ovvero, in tutti gli altri casi, a presunte innovazioni sistemiche, dal tenore e dalla portata tanto rivoluzionari quanto materialmente retorici. Il ddl 953 (nel testo unificato e comprensivo di tutti gli emendamenti sinora proposti e accolti) appartiene, purtroppo, a quest’ultima categoria. E presenta anche l’aggravante di introdurre modificazioni che, pur essendo destinate, quasi sicuramente, ad essere solo simboliche, rischiano, come tali, di radicalizzare alcune costanti negative del sistema nazionale di istruzione.

L’ispirazione complessiva del nuovo intervento normativo sembra chiara: rivitalizzare, innanzitutto, l’autonomia scolastica, dotando le singole istituzioni scolastiche di uno statuto, nel quale poter definire al meglio, di volta in volta, il funzionamento e la composizione concreta dei rispettivi organi collegiali; equipaggiare l’autonomia così rivitalizzata di strumenti operativi più precisi, specialmente al fine di consentirle una migliore interazione con altri soggetti, pubblici o privati, del territorio di riferimento; collegare meglio questa stessa autonomia alle altre autonomie, quelle territoriali, e al più generale sistema di istruzione.

Come sempre, tuttavia, le strade del “vizio” sono lastricate di “buone intenzioni”. Il giudizio può sembrare eccessivamente tranchant, ma il fatto è che le modalità con cui le predette ispirazioni dovrebbero realizzarsi sono quanto mai discutibili. Facciamo qualche esempio (senza soffermarci, peraltro, sulle pure affermazioni di principio per le quali ogni scuola “concorre ad elevare il livello di competenza dei cittadini della Repubblica e costituisce per la comunità locale di riferimento un luogo aperto di cultura, di sviluppo e di crescita, di formazione alla cittadinanza e di apprendimento lungo tutto il corso della vita”: sarà, questo, un ruolo realmente accessibile? Il ddl, naturalmente, ci avverte che tutte le innovazioni ivi previste devono avvenire “nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili” e, comunque, “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”...).

Se è vero che lo statuto è, in linea di principio, un atto capace di dare vera dignità alla nozione stessa di “autonomia”, è altrettanto vero che la sua previsione non è di per sé sufficiente a garantire il risultato voluto. Sul punto, il modello del legislatore statale è, all’evidenza, la legge che la Provincia di Trento si è data nel 2006. Ebbene, pur facendo l’analoga scelta, quell’esperienza ha dimostrato, sul piano applicativo, la peculiare ritrosia delle singole istituzioni scolastiche ad elaborare un “reale” e “proprio” statuto: in quel contesto, infatti, la grande maggioranza delle scuole si è limitata a “riprodurre” lo “statuto-tipo” fornito dall’amministrazione provinciale.

La “paura dell’ignoto”, certo, è un fatto naturale, suscettibile di essere superato nelle successive applicazioni del modello: forse, tra qualche anno, le scuole trentine miglioreranno la propria propensione a “vedersi” autonome. Eppure quella stessa “paura” è un dato da non sottovalutare, poiché, concretamente, può dire molto, ed anche prima che la legge statale venga approvata, su ciò che è lecito e verosimile aspettarsi e sulla possibilità che le novità vengano assimilate soltanto in minima parte. Si noti, ma solo rapidamente, che gli statuti approvati dovranno essere sottoposti ad un “controllo formale da parte dell’organismo istituzionalmente competente”: anche questa disposizione si può capire (le scuole non sono “abituate” a scrivere statuti e potrebbero commettere “errori”), ma sempre l’esperienza trentina insegna che un simile controllo è stato spesso frainteso e ha contribuito, di fatto, a “bloccare” le potenziali innovazioni provenienti dal basso.

Ma c’è dell’altro. Lo statuto è correttamente concepito come la sede in cui, nel contesto di una cornice prefissata ed uniforme, la comunità scolastica deve stabilire anche la fisionomia effettiva degli organi collegiali. Vero è, però, che nel modello statale – e diversamente dal modello trentino, che sul punto prevede solo una mera opzione, di fatto non esercitata dalle scuole – si prevede che “nel consiglio dell’autonomia” debba essere comunque assicurata la presenza, in “numero non superiore a due”, di “membri esterni”, scelti tra le “realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi”. Come si opera, tuttavia, la scelta? Quali realtà possono dirsi più idonee a relazionarsi con la comunità scolastica anche in seno alla governance interna della singola scuola? Il ddl non offre alcuna risposta e rinvia ad un regolamento che il “consiglio dell’istituzione” dovrebbe adottare. Il punto è che, dovendosi fare questo tipo di scelta, le scuole saranno costrette ad immaginare percorsi più o meno improbabili, per giungere, cioè, a selezioni che non siano arbitrarie, discriminatorie o, cosa peggiore, sovra-rappresentative di alcuni interessi a discapito di altri, ivi compresi quelli propri della comunità scolastica in senso stretto e, soprattutto, del corpo docente.

È vero o non è vero, anzi, che proprio i docenti, che dovrebbero invece costituire il nucleo duro dell’autonomia scolastica come autonomia funzionale di matrice essenzialmente didattica, avrebbero bisogno di essere posti, in qualche modo, al centro del sistema? Se l’autonomia scolastica, quella tuttora vigente, non ha sempre operato con successo, questo lo si deve al messaggio di sistemica esclusione che la professionalità docente ha vissuto e percepito a più riprese. Perché – ma sembra un rilievo scontato – una cosa è sostenere, giustamente, che l’autonomia sia concetto relazionale, che esige sempre e comunque un rapporto con tutti i cosiddetti stakeholders del contesto locale; altra cosa è ipotizzare, a regime, che questi stakeholders costituiscano un notevole fattore di pressione sull’autonomia, sia in quanto presenti, in modo più o meno riconoscibile, all’interno del principale organo di governo dell’istituzione scolastica, sia in quanto chiamati ad essere interlocutori fattivi in accordi strumentali all’offerta didattica, ma anche a partecipare, sempre in forza del medesimo ddl, alla “conferenza di rendicontazione” (che deve essere convocata dalla scuola ogni anno).

Occorre dire, poi, che i difetti della progettata riforma sono visibili anche nella parte in cui essa pare potenzialmente più interessante.

Nulla da osservare, in linea generale, sulla prevista costituzione di consorzi e di reti a sostegno dell’autonomia scolastica (definiti, però solo come facoltativi), né sulla possibilità che questi ricevano contributi o sostegni di carattere economico da una serie di importanti realtà sociali ed istituzionali, pubbliche o private. Ciò che rende perplessi è il rompicapo disciplinato al Capo II del ddl, ossia la serie di organi collegiali sovra-scolastici (Consiglio delle autonomie scolastiche, Conferenza regionale del sistema educativo, Conferenze di ambito territoriale). Ebbene, se da un lato essi sono il frutto del tentativo (ragionevole) di creare le occasioni di pianificazione e di programmazione su cui poi ogni singola scuola può essere maggiormente certa delle proprie attribuzioni e delle proprie capacità progettuali, dall’altro predispongono una “griglia di contenimento”, che appesantisce gli snodi del servizio di istruzione, che moltiplica i procedimenti di carattere maggiormente burocratico e che, soprattutto, si nutre di un’illusione razionalizzante che, oltre ad essere forse superata (al pari di quanto lo è stato il sistema piramidale della pianificazione urbanistica), troverà sfogo, presumibilmente, soltanto in documenti formali.

Ciò significa, forse, voler superare il modello dell’autonomia? A prescindere dal rilievo che un tale obiettivo non sarebbe praticabile (l’autonomia scolastica è, dal 2001, costituzionalmente garantita), è opportuno precisare che il target più adeguato di una possibile riforma dovrebbe consistere, piuttosto, nel completare la piena affermazione dell’autonomia e del suo hard core didattico, come potestà di effettiva elaborazione del servizio di istruzione concretamente prestato in ogni scuola. In sostanza, approvare un potenziamento formale delle “fonti” dell’autonomia o dei suoi strumenti “negoziali” è operazione che di per sé serve a poco, soprattutto se disgiunta da una rinnovata riflessione sullo stato giuridico ed economico dei docenti e sul ruolo istituzionale del dirigente scolastico, che, anche in questo ddl, seguita ad essere il soggetto che “risponde di tutto” senza poter realmente godere di una forte legittimazione interna e di prerogative veramente adeguate al suo naturale ruolo di leader educativo.