«Il digitale a scuola non
migliora l’apprendimento»

Marina Boscaino Pubblico giornale, 22.12.2012

Qualche tempo fa Manuela Ghizzoni – presidente della Commissione Cultura della Camera – ha sostenuto la necessità che i parlamentari acquisiscano informazioni e pareri sugli effettivi risultati della Scuola Digitale. In epoca di totem tecnologici, tecnocrazia e Demagogia 2.0 (sono i cavalli di battaglia di Profumo) si tratta di un’affermazione significativa e condivisibile.

Non solo perché, mentre Profumo annuncia le scuole agonizzano, ancora ignare se e quanti fondi arriveranno loro per gestire le attività. Ma anche perché si tratta effettivamente di un ambito che nessuno ha avuto mai la laicità di indagare effettivamente, sottraendosi alle lusinghe e agli automatismi dei due must ideologici di questo scor- cio di inizio millennio: Europa e modernità.

Antonio Calvani è professore ordinario di Metodi e Tecnologie educative del diparti- mento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi dell’Università di Firenze. È autore di molti libri; l’ultimo è «Per un’istruzione evidence based. Analisi teorico-metodologica internazionale sulle didattiche efficaci ed inclusive», (Erickson, 2012).

Abbiamo partecipato entrambi a un dibatti- to all’interno dell’eBook Fest, che si è svolta a Sanremo. In quell’occasione il professor Calvani mi ha colpito per la lucidità intellettuale e l’accuratezza scientifica con cui mette consapevolmente in discussione alcune delle più diffuse – e meno comprovate dalla realtà dei fatti – prospettive con cui si guarda all’introduzione delle tecnologie digitali nella scuola.

Ho trovato una confortante simmetria tra il suo approccio critico e le sue conclusioni, che si fondano sui risultati degli studi della comunità interna- zionale che fa ricerca in questo settore, e le riflessioni che ho a mia volta proposto ai lettori di questo giornale sull’impostazione sostanzialmente demagogica di questo ministro e dei precedenti. È da un anno che Profumo ci intrattiene con promesse “digitali”, dimenticando da una parte la situazio- ne reale della scuola; dall’altra che le tecnologie da sole – e pertanto la “modernità”che traghettano – non possono rappresentare (se non demagogicamente) la soluzione ai nostri problemi.

Quali sono, dal punto di vista della ricerca scientifica, gli effettivi risultati per l’ap- prendimento dell’utilizzo delle tecnologie digitali nella scuola?

Contrariamente a quanto si è indotti a pensare la ricerca educativa basata su evidenza mostra ormai da decenni che in termini di efficacia dell’apprendimento i risultati sono assai modesti; in molti casi si può verificare anche un abbassamento degli apprendimenti, dovuto verosimilmente alle difficoltà di gestire i fattori di sovraccarico, distrattività o estroflessione che le tecnologie possono introdurre. In breve, se si vuole che gli studenti apprendano di più (la matematica, le scienze, la storia, eccetera) non sono le tecnologie la via maestra. Questo non vuol dire che le tecnologie non si debbano inserire nella scuola; ci sono situazioni particolari (ad esempio si pensi alla didattica speciale, all’individualizzazione dei percorsi) oppure ragioni culturali (sviluppare competenza digitale, superare il digital divide e così via) per inserirle. Però sono comunque scelte che vanno assunte consapevolmente, orientandole a scopi mirati.

Quali sono le ragioni del grande spazio riservato alle stesse tecnologie nell’immaginario didattico?

Le tecnologie sono un tratto caratterizzante la vita dell’uomo; da sempre, l’uomo ha costruito nei secoli la propria identità con e nelle tecnologie. L’immaginario tecnologico ha una lunga storia. Più recentemente le tecnologie “cognitive” sono diventate fonti più subdole di seducenti aspettative (e di fuorvianti deduzioni pedagogiche); un genitore (o un insegnante) che vede un bambino smanettare con una certa abilità su un qualunque nuovo oggetto tecnologico è indotto a immaginare di essere di fronte a nuove forme di pensiero, o a nuovi geni in erba; allo stesso tempo è portato a vedere la scuola come arretrata, “da rottamare..”, gli insegnanti inadeguati e così via. Poi si scopre la verità; quelle maestrie manipolative dei cosiddetti nativi digitali non si accom- pagnano quasi mai ad un avanzamento qualitativo dei processi di pensiero.

Quali modelli e quali contenuti possono essere davvero efficaci per formare in modo utile coloro che si occupano di didattica?
Anche qui la ricerca evidence-based dispone oggi (rispetto a qualche anno fa) di risultati affidabili. Intanto sono le metodologie (e non le tecnologie) che fanno la differenza. Tra le metodologie hanno maggiore efficacia quelle che sono orientate a conseguire obiettivi ben chiari, che valorizzano l’interazione (il feedback), la ripetizione sistematica degli apprendimenti in contesti va- riati e la consapevolezza autoriflessiva che deve accompagnare l’apprendimento.


Quali criteri possono essere utili per la progettazione e le decisioni istituzionali in merito alle politiche scolastiche, compito di chi ha un ruolo di decisore?

Per i decisori di politiche tecnologiche si potrebbe fare un decalogo veloce: non inse- rire mai le tecnologie per poi lasciare che si trovi dopo (o emerga) il senso del loro utilizzo educativo; tenere conto dei tempi di de- cadimento delle tecnologie stesse (obsole- scenza e così via); non fare introduzioni massicce, ma sempre mirate a specifiche finalità; far precedere l’introduzione da formazione degli insegnanti; procedere con rapporti circolari teoria-pratica; iniziare dagli ambiti nei quali è più evidente il valore aggiunto (bisogni speciali, drop-out, intercultura, lingue straniere).