Laurea? Più accesso alle professioni La consultazione del governo sul valore legale del titolo di studio chiede come favorire la competizione al rialzo tra le università sul modello anglosassone e così superare la cultura del “pezzo di carta”. C’è però il rischio di incagliarsi su meccanismi tecnici pericolosi, come il ripensamento dei titoli e voti di laurea. La priorità invece è aprire ai giovani l’accesso a concorsi e professioni, valorizzando la varietà dei percorsi individuali di studio. di Umberto Marengo Il Fatto Quotidiano, 23.4.2012
Il governo ha aperto
una
consultazione online sul valore
legale del titolo di studio
con l’obiettivo di andare oltre la cultura del “pezzo di carta”
valorizzando le diversità e le eccellenze nei percorsi di studi
individuali. Il dibattito sul “valore legale della laurea” solleva
due ordini di problemi: primo, la standardizzazione delle classi di
laurea (e del reclutamento dei docenti); secondo, la laurea come
titolo di accesso a professioni e concorsi. Mentre per il primo
punto non sembrano esserci margini di manovra, il governo vorrebbe
differenziare il
valore di titoli“nominalmente equivalenti” (ma qualitativamente
diversi), ispirandosi al cosiddetto modello anglosassone. È
possibile? Nel Regno Unito e nei paesi anglosassoni la laurea non ha valore legale: il riconoscimento e la garanzia del percorso di studi non sono svolte da un ministero, ma da agenzie indipendenti, spesso finanziate da università e dallo stato, senza però entrare nel dettaglio di come i singoli corsi di laurea debbano essere organizzati. In Inghilterra è la Qaa, Quality Assurance Agency for Higher Education, a fissare una serie di criteri minimi per l’emissione di titoli di studio. Negli Stati Uniti le agenzie di accreditamento sono molteplici e a loro volta accreditate dal governo federale o dal Council for Higher Education Accreditation. Nei casi di lauree professionalizzanti (medicina, legge, ingegneria) i percorsi di studio sono concordati anche con le associazioni dei professionisti (i Bar o l’American Medical Association, la Law Society inglese, eccetera). Nel Regno Unito per l’accesso ad alcune professioni è richiesto un titolo triennale (sei anni per medicina) conseguito presso un’università accreditata o un corso annuale di conversione (per esempio, legge). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, non è richiesto alcun titolo specifico (per esempio, i giornalisti) e gran parte dell’educazione alla professione (per esempio, avvocatura o contabilità) avviene all’interno della professione stessa attraverso contratti di apprendistato di due o tre anni. Si tratta di apprendistati pagati e generalmente con la prospettiva di continuare il rapporto anche dopo aver ottenuto la qualifica. In breve, i profili d’ingresso per i giovani nelle professioni più remunerate sono molto ampi, ma visti i costi di formazione le aziende sponsorizzano un numero limitato di praticanti.
Anche per i concorsi
pubblici inglesi (civil service) l’unico requisito è un
qualsiasi titolo triennale e candidati con background non tipico
(scienziati o umanisti) sono incoraggiati a partecipare. Sebbene
esistano concorsi specifici per economisti o giuristi, la gran parte
della dirigenza pubblica (il fast-stream) viene reclutata
attraverso concorsi generalisti e attitudinali, in cui l’unico
criterio d’accesso è aver ottenuto una first class
(1) o upper second (2.1) come voto di laurea, fascia che
comprende circa il 40 per cento dei laureati. Proprio perché i
criteri d’accesso sono molto ampi, diventa importante
l’università di provenienza
ma, soprattutto, la preparazione
attitudinale che l’università ha fornito e il
percorso di studi individuale
dei candidati.
Nella consultazione il
nostro governo discute se siano richiesti titoli non necessari o
troppo specifici per l’accesso ad alcune professioni e come sia
possibile ripesare titoli e
voti di laurea assegnati in contesti diversi
e quindi non paragonabili. Più in generale, ci si chiede se il
titolo di studio sia un’effettiva garanzia di qualità e se non sia
possibile trovare un sistema che incentivi le università a
diversificare l’offerta formativa e creare un mercato competitivo.
Un terzo del questionario proposto dal governo si concentra proprio
sulla differenziazione qualitativa
di
titoli di studio nominalmente equivalenti. La proposta già
circolata prima della consultazione sarebbe ri-pesare il voto finale
di laurea sulla base di una ranking della qualità didattica
dell’ateneo o dipartimento. Si tratta, vale la pena di
sottolinearlo, di un sistema che non
avrebbe precedenti né in Europa né nel mondo
anglosassone, con il risultato perverso di valorizzare ancora meno
i percorsi individuali
rispetto al “titolo” di provenienza. In nessun paese esiste un
sistema per cui l’accesso ai concorsi pubblici viene valutato
applicando un coefficiente maggiore ai diplomati di Harvard o
Oxbridge, il cui valore reale sta tanto nel titolo quanto nella
educazione (non solo accademica) fornita dall’università. Per di
più, questa proposta si limita ai concorsi pubblici e sarebbe di
minimo impatto sul modello sociale. (1) Il sistema anglosassone si fonda su flessibilità dei percorsi di studio e accesso alle professioni. La priorità in Italia dovrebbe essere dare meno spazio possibile agli ordini professionali per limitare i candidati che possono accedere all’esame di Stato. Per esempio, l’obbligo di possedere un titolo in una classe di laurea specifica per sostenere alcuni esami di Stato potrebbe essere sostituita dall’obbligo di aver acquisito un numero minimo di crediti in discipline essenziali. Una proposta simile era circolata a gennaio per l’ordine degli avvocati e dei commercialisti ed è stata bloccata dalla lobby di chi oggi esercita quelle professioni. Se le facoltà di giurisprudenza italiane strabordano di studenti non è perché stanno formando specialisti per i più diversi impieghi, ma per la semplice ragione che una laurea di classe LMG/01 apre le porte a una numero smisurato di professioni e concorsi. In Italia l’accesso ai concorsi pubblici è limitano a specifiche lauree mentre nei paesi anglosassoni la diversità di background, percorsi individuali e studi porta un contributo essenziale al servizio pubblico. Per quale ragione non dovrebbe essere permesso ai laureati in filosofia o matematica di partecipare al concorso diplomatico o della presidenza del Consiglio? È infine vero che l’attuale sistema di punteggi favorisce gli studenti che provengono da facoltà o atenei dove i voti sono troppo concentrati tra i 110. Se si vuole seguire il modello anglosassone, piuttosto che ripesare i voti si stabilisca un punteggio minimo per l’accesso e si lasci che sia poi il concorso a scegliere i migliori. Il paradosso italiano è che tutti possono accedere a una laurea, ma l’accesso alle professioni è una corsa a ostacoli. Il modello anglosassone è l’opposto: più competitività all’ingresso, e massima apertura alle professioni all’uscita.
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