SCUOLA

Ribolzi: investire in istruzione
può ridurre la crescita...

Luisa Ribolzi il Sussidiario 12.10.2011

L’intervento di Mario Draghi all’Intergruppo per la Sussidiarietà, ha rilanciato sulle prime pagine dei giornali un vivace e sacrosanto dibattito sull’Italia “paese per vecchi” e sullo stretto legame che esiste fra i giovani e la crescita, non la loro, di cui peraltro sarebbe bello preoccuparci di più, ma quella del paese. Dico “rilanciato” perché i temi toccati dal Governatore, le cui osservazioni sono corrette e rilevanti, sono in realtà presenti da tempo, in alcuni casi da molto tempo, nel dibattito sociologico, per cui si poteva pensarci prima...

La prima affermazione è che le prospettive dei giovani sono incerte, e questa generazione di giovani non godrà, e non potrà godere, di condizioni di vita migliori di quelle dei loro padri. Nel rapporto curato da Confindustria sulla “mobilità della società italiana” , uscito nel 1996, io stessa parlavo di “caduta della speranza” e “decumulazione del capitale umano” per indicare la situazione di una società che, incapace di investire sui giovani e di fornire loro motivazioni forti, preferiva deresponsabilizzarli e ricorrere ad un assistenzialismo prolungato, creando tanti giovani Peter Pan che rifiutavano di crescere, anziché pensare a modalità nuove di valorizzarne i talenti. Se l’isola c’è, in altre parole se si pensa a provvedimenti mirati, e non generici, di sostegno ai giovani, e in particolare all’imprenditorialità giovanile, è plausibile, oltre che logico, che le prospettive dei giovani miglioreranno, e con loro quelle del paese.

In secondo luogo, parrebbe evidente che questa situazione viene esasperata dalla crisi economica, che causa l’aumento di famiglie a più generazioni in cui i genitori, o addirittura i nonni con le loro pensioni, consentono la sopravvivenza dei figli. Questo è vero solo in parte. La dizione di “famiglia lunga del giovane adulto” compare, ed è già consolidata, nel titolo di un volume del 1988, e dal punto di vista economico, caduti i vincoli di sopravvivenza, sembra dovuta soprattutto al desiderio della famiglia di garantire ai giovani la possibilità di scegliere un lavoro definitivo più consono alle loro aspettative e competenze. Oggi, piuttosto, diminuisce il confine fra lavoro iniziale e lavoro definitivo, e le generazioni di mezzo, compresse fra cura degli anziani e figli ancora a carico, cercano in ogni modo di incoraggiarne l’uscita.

Nelle situazioni di crisi, nota Draghi, la famiglia è un ammortizzatore, garantisce una possibilità di sopravvivenza: ma questa sua funzione non è nuova, e perfino i miei studenti sanno che una delle funzioni centrali dell’istituto famigliare è da sempre quella di una ridistribuzione del reddito, finalizzata a supportare i membri più deboli. E’ chiaro che una politica famigliare in grado di evitare l’impoverimento dei nuclei famigliari con più figli inattivi faciliterebbe questo processo, e si trasformerebbe da assistenziale in proattiva, mentre spesso ci si limita a constatare il fenomeno.

Da ultimo, e su questo mi soffermerò, si osserva che l’investimento in istruzione consente di rivalutare le capacità personali e di accrescere le possibilità di impiego e di valorizzazione del merito. Questo è purtroppo vero fino a un certo punto: le ricerche indicano da sempre una correlazione fra possibilità di lavoro e di guadagno e titolo di studio, con un divario che si è ridotto per tutti gli anni Ottanta e Novanta, e poi in parte ha ripreso a crescere: tuttavia questo non è legato automaticamente al livello di istruzione, o meglio bisogna tenere ben presente che il livello di istruzione stesso è strettamente collegato, in Italia anche più che altrove, alle condizioni famigliari, e chi studia a lungo ha anche, per lo più, uno status socio economico elevato. Draghi sottolinea il peso delle condizioni di partenza, e l’importanza di introdurre misure di sostegno alla persona per far crescere l’equità, ma sottolinea anche, molto giustamente e realisticamente, che l’investimento in istruzione è necessario ma nonsufficiente. Per migliorare le opportunità economiche e professionali dei giovani non basta migliorare la qualità della formazione, a ogni livello, ma sono necessarie e prioritarie misure strutturali nel campo delle politiche economiche e del lavoro, che riducano ad esempio i vincoli burocratici e supportino l’imprenditorialità giovanile.

Alison Wolf, un’economista della London School of Economics, in un suo libro del 2002 dal provocatorio titolo “L’educazione conta? Mitologia del rapporto fra educazione e crescita economica” definisce le tre priorità dell’allora primo ministro Tony Blair “education, education, education” come una sorta di mantra evocato dai politici per evitare di prendere misure più sostanziali e forse più impopolari. Scrive la Wolf: “un governo che sia veramente interessato alla crescita economica deve essere molto attento e selettivo nello spendere per l’istruzione. Deve prevedere le dimensioni e la tipologia della domanda, deve capire che cosa deve pagare lo Stato e che cosa no, e deve garantire la qualità dell’istruzione. Il modo in cui funziona oggi il sistema formativo sembra ridurre la crescita piuttosto che incoraggiarla”.

Non è il “quanto” (o meglio, non è solo il quanto: è chiaro che i tagli indiscriminati non giovano alla qualità) ma il “come” che innesca pratiche virtuose di cui i giovani possono fruire, ed è soprattutto un collegamento fra politiche per l’istruzione e politiche per il lavoro e in generale politiche di welfare. Ma, direbbe Baglioni, “questa è un’altra storia di chi aspetta sulla riva”….