Aliquote ed età d'uscita, le disparità
La giungla (iniqua)
Architetti, avvocati e psicologi pagano circa un terzo Enrico Marro Il Corriere della Sera, 29.11.2011
Il
dossier «privilegi pensionistici» è sui tavoli del governo. Saranno
il presidente del Consiglio, Mario Monti, e il ministro del Lavoro,
Elsa Fornero, a decidere se e come procedere. Certo è che se il
premier volesse dar seguito alla promessa di provvedimenti nel segno
dell'«equità», ci sarebbe molto da fare. Perché è vero che
l'armonizzazione delle regole ha fatto un decisivo passo avanti con
la riforma Dini del 1995, ma neppure quel grande riordino riuscì,
per esempio, a colpire i privilegi della casta dei politici oppure a
ricondurre a un maggiore equilibrio alcune casse professionali. Sta
di fatto che ancora oggi sopravvive una giungla delle aliquote
contributive, con i lavoratori dipendenti che pagano il 33% (due
terzi a carico dell'azienda) e i deputati e senatori l'8,6%,
passando per artigiani e commercianti con il 20-21% e alcune
categorie di professionisti con il 10-13% (psicologi, architetti,
avvocati). E restano in vigore età di pensionamento più basse della
norma (65 anni per la vecchiaia e 60-61 anni per l'anzianità) a
favore di alcune categorie, dalle Forze armate ai piloti, dai
parlamentari ai conducenti di autobus, metropolitane e treni.
Il
Senato ha appena deciso di eliminare i «vitalizi», si chiamano così
le pensioni dei parlamentari, ma solo a partire dalla prossima
legislatura. Quelli in servizio ora, come ha scritto sul Corriere
Sergio Rizzo, se hanno più di 4 legislature alle spalle, potranno
ancora andare in pensione a qualsiasi età mentre nulla è previsto a
carico di quei parlamentari tipo Giuseppe Gambale, andato in
pensione nel 2006 a 42 anni con 8.455 euro lordi al mese e Alfonso
Pecoraro Scanio che nel 2008 ha preso il vitalizio a 49 anni. Ed è
appena il caso di aggiungere che i vitalizi sono cumulabili con
qualsiasi altro reddito, compresi eventuali vitalizi da consigliere
regionale (qui si entra in una giungla dove è ancora possibile, come
alla Regione Lazio, prendere l'assegno a 50 anni). Alla Camera
invece, per ora, hanno solo approvato un ordine del giorno che
prevede il passaggio al calcolo contributivo. Ma anche questo
governo, come i precedenti, pare che non possa far nulla perché
Camera e Senato hanno autonomia decisionale.
E
che dire dei dipendenti della Regione Sicilia che ancora possono
andare in pensione anticipata a 45 anni, basta che abbiano un
parente infermo da assistere? Anche in questo caso, è la Regione,
che oltretutto è a statuto speciale, che comanda. Sembra che voglia
mettere fine a questo scandalo, ma il solo annuncio ha scatenato una
fuga dal lavoro di 45-50enni. Insomma: le baby pensioni non sono del
tutto cessate nel 1992, quando la riforma Amato mise fine al
privilegio dei dipendenti pubblici che potevano andare in pensione
dopo 19 anni sei mesi e un giorno (addirittura 14 anni sei mesi e un
giorno se donne con figli). Un regalo che ancora paghiamo, visto che
ci trasciniamo più di mezzo milione di pensioni liquidate a
lavoratori con meno di 50 anni d'età: 535.752 per la precisione, che
costano allo Stato circa 9,5 miliardi di euro l'anno. In questo caso
il governo potrebbe intervenire con un contributo di solidarietà
(ipotesi che i tecnici avevano studiato già sotto il governo
Berlusconi).
Oltre alle differenze già viste, restano quelle dei fondi speciali
Inps: gli ex fondi Trasporti, Elettrici, Telefonici, Inpdai
(dirigenti d'azienda) confluiti nel Fondo lavoratori dipendenti e i
fondi Volo, Ferrovie, Clero ed ex Ipost (postelegrafonici). Il
«personale viaggiante» dei Trasporti può andare in pensione di
vecchiaia a 60 anni (55 le donne). Stessa cosa per gli iscritti al
Fondo Volo, che possono anche andare in pensione d'anzianità con un
anticipo fino a 5 anni sulle regole generali. I macchinisti delle
ferrovie possono lasciare a 58 anni con 25 di servizio, i
controllori a 60 anni. I privilegi non sono solo quelli che nascono da regimi di favore, ma si nascondono anche nella giungla delle aliquote contributive, sottolinea Domenico Proietti, segretario confederale della Uil ed esperto di previdenza. La questione riguarda i lavoratori più anziani, che vanno in pensione col sistema di calcolo retributivo. Che frutta una pensione in rapporto alla retribuzione appunto: per capirci, il 2% per ogni anno di lavoro, l'80% dello stipendio con 40 anni di contributi. Ora è evidente che se uno paga il 33% e un altro il 20% o anche meno, ma alla fine tutti e due prendono il 2% della retribuzione per ogni anno di versamento, il secondo lavoratore riceve un "regalo" rispetto al primo. Ecco perché il ministro del Lavoro vorrebbe uniformare il più possibile le aliquote. E non solo per ragioni di equità ma anche per eliminare gli effetti distorsivi delle aliquote agevolate. Si ritiene infatti che la diffusione dei contratti precari di collaborazione sia figlia anche del fatto che per le aziende sono convenienti, perché su questi si pagano contributi molto più bassi del 33% (solo recentemente l'aliquota è stata portata al 27%). Ci sono infine una ventina di agevolazioni contributive concesse da leggi diverse a favore di: contratti di solidarietà; formazione; inserimento; reinserimento; apprendistato; assunzione di lavoratori. |