Scuola e vita: poveri figli

Sivia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 27.3.2011

Milano, liceo Parini. Alcuni prof esasperati dall’invadenza (e dalle urla) di mamme e papà hanno chiesto il trasferimento ad altra sede. “Ci sono madri, non tutte per fortuna, che passano le loro giornate a insegnarci come si fa il nostro mestiere – ha spiegato una delle prof in fuga –. E se i figli prendono voti bassi ci insultano”. Non potendo mettere una nota sul registro alle famiglie, il preside ha tentato una mediazione con una circolare in cui si legge: “I genitori che per qualsiasi ragione (personale) abbiano motivi di critica nei confronti di un docente non devono avere atteggiamenti aggressivi od offensivi”. Alla fine è arrivato un ispettore che, è immaginabile, non servirà a un granché.

La scuola italiana è molto dispari, ridotta a un colabrodo dal disinteresse generale, con insegnanti spesso impreparati: non c’è dubbio. Accade anche perché i docenti sono socialmente considerati dei falliti (ovviamente vale sempre che “l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa”).

Questa è la cornice, da sola però non spiega perché, di fronte a scarsi risultati della prole, i genitori invece che preoccuparsene reagiscono rigurgitando insulti. È passata – cattiva maestra televisione – l’idea che urlare la propria ragione le conferisca una qualche supremazia argomentativa. Naturalmente è l’illusione dello stupido. Questi comportamenti alla “ora ti metto a posto io” dipendono da una, spesso immotivata, iperidea di sé. E dalla convinzione che, considerando il successo un imperativo categorico, non siano tollerabili inciampi (ironia della sorte: lo stesso Parini pare non fosse un drago negli studi).

Ma la strada per il successo, ammesso che sia un traguardo preferibile alla felicità, è piena di buche. Non è una considerazione morale: è, semplicemente, logica. Essere andati a scuola vent’anni fa non vuol dire saper insegnare, anche se non tutti i prof ne sono degni (pura deduzione statistica). Quando hai 16 anni la scuola è una rottura di palle che ti costringe a svegliarti presto e a sbadigliare per le successive due ore in classe. Non capisci a cosa serve studiare, specie in un mondo di cafoni analfabeti. Tutto è molto, molto, più chiaro dopo. Non si tratta solo di imparare a usare il congiuntivo, che pure ha una sua importanza (perfino in amore: può sempre capitare di incontrare qualcuna/o con l’orecchio troppo sensibile per sopportare la cacofonia). Si tratta di formarsi, individuarsi, crescere. Imparare a ragionare, sostanziare le proprie tesi, rendere elastico il cervello. A riconoscere la bellezza di una conversazione vivace dalla banalità del luogo comune. Si sostiene che bisognerebbe insegnare cultura d’impresa al posto di greco, latino e filosofia: “Faber est suae quisque fortunae” (“ognuno è artefice della propria sorte”).

L’importante sarebbe almeno avere la possibilità di scegliere chi si vuole diventare, se esseri pensanti o idioti che sanno solo chattare via skype o mandare sms. Sapendo di sé sarà più facile scegliere anche le persone che ci fanno compagnia nel viaggio (altrimenti si rischia di finire le proprie serate a parlare con imbecilli che a quarant’anni cedono alla lusinga di credersi adolescenti con tutto davanti).
Ma la vita è un soffio e la leggerezza non ha nulla a che fare con la vacuità. Per questo è il caso che mamme e papà si fermino sul portone di scuola. Possono impiegare le loro giornate in modi più proficui, magari insegnando ai ragazzi – questo sì è un affare loro – il valore della conquista: del sapere, dell’intelligenza.