"Io e la scuola, dopo 40 anni da prof
Oggi i ragazzi non usano più la testa"
Patrizia Avanzini, figura "istituzionale" del
liceo classico Mazzini, va in pensione: "Ecco che cosa è cambiato.
La passione non alberga più né tra gli allievi né tra gli
insegnanti"
di Roberto Orlando
la Repubblica di Genova, 10.7.2011
Nel 1978, l'anno della nostra maturità, lei era più o meno come
oggi. Magra e minuta, sguardo diretto e disincantato dietro gli
occhiali tondi, i capelli non ancora ingrigiti raccolti in un moccio
dietro la nuca. Passo rapido, sempre assorta, scappava via con libri
e registri sotto braccio lungo i corridoi del liceo classico Mazzini
di via Paolo Reti, a Sampierdarena, per raggiungere una delle sue
tante classi sparse fino alla succursale di Pegli, in piazza
Bonavino. La professoressa Patrizia Avanzini va di fretta anche ora
che, 40 anni dopo, si avvia verso la pensione. Ultima sessione di
maturità, stesso liceo. Storia dell'Arte, la sua materia, non più
figlia di un dio minore grazie anche alla terza prova scritta della
maturità. E davanti a lei, oggi, tra gli stessi banchi un po' più
usurati, i nostri figli. Per onestà, più di 30 anni dopo, dobbiamo
dire che non tutti noi abbiamo sempre seguito con attenzione le sue
lezioni.
Eravamo persi tra languori adolescenziali e voglia di contestare,
tra prime sigarette e preoccupazioni per il compito in classe delle
ore successive, quelle toste: greco, italiano, latino. Mite ma
tenace, la professoressa Avanzini ha continuato a seminare senza
badare troppo alle nostre distrazioni, lasciando intendere che,
prima o poi, avremmo dovuto fare i conti con i suoi capitelli dorici
e corinzi, con rosoni e transetti, con i chiostri e gli archi a
sesto acuto. Perché avrebbero segnato la nostra rotta, forse più di
kalòs kai agathos e del latinorum.
Professoressa, lei ha cominciato a
insegnare nel 1970. Si è mai sentita precaria?
"Sì, certo. L'incarico di ruolo, dopo le supplenze e tre
contratti annuali al D'Oria, dove insegnavo Lettere, è arrivato
soltanto nel '78, qui al Mazzini. Oggi è peggio: allora con un
incarico annuale lo stipendio correva per 12 mesi, adesso i precari
d'estate non sono pagati".
Cos'altro è cambiato? Qual è la differenza che le pare più
vistosa?
"I ragazzi era spinti molto di più a pensare, avevano capacità
critica e una spiccata vivacità intellettuale. Era poco dopo il '68
e gli studenti erano interessatissimi a tutto ciò che accadeva nel
mondo socio-economico, in quello politico. C'era fermento e la
scuola ne veniva vivificata. Negli anni Ottanta è finito tutto".
La scuola dunque non è più laboratorio politico?
"No, la passione politica non alberga più tra gli gli studenti e
neppure tra gli insegnanti, salvo rarissime eccezioni. Oggi
un'assemblea funziona se il comitato studentesco si inventa un
dibattito di attualità al quale invitare qualche esperto. Per il
resto siamo a zero".
Perché? Colpa degli studenti?
"Ma no. E' che i ragazzi oggi si fanno meno domande e sono
meno responsabilizzati. E' tutto orientato alla quiescenza di
piccole esigenze consumistiche".
Oggi studiano di più o di meno?
"Sembrano più propensi allo studio, perché sono più obbedienti,
forse meno contestatori. Ma non sanno studiare perché nessuno ha
insegnato loro a farlo usando il cervello. Perciò imparano a
memoria, impiegando più tempo".
E chi avrebbe dovuto indicare
loro il metodo di studio?
"Prima alle medie si insegnava a fare una sintesi, una
scaletta logica, a prendere appunti selezionando gli elementi più
importanti. Al ginnasio ora si fa quel che si dovrebbe fare alle
medie. Così poi gli studenti quando si ritrovano alla maturità un
testo difficile come quello di Seneca quest'anno, fanno fatica a
tradurre. Anche perché non conoscono i valori che potrebbero
confermare l'esattezza di ciò che stanno traducendo. Credete che per
i ragazzi la virtù o l'onestà, come scrive Seneca, siano un "massimo
bene"? No, per molti di loro questi concetti non hanno un senso".
E' cambiato anche
l'atteggiamento delle famiglie?
"Negli anni Settanta le famiglie speravano che i figli non
dovessero vivere come loro massacrandosi di lavoro manuale, ma
usando la testa. La scuola era un valore e quindi era diverso pure
l'atteggiamento verso gli insegnanti".
La scuola si è indebolita anche
sotto questo aspetto?
"Sì, non è considerata più un valore neppure dalle
istituzioni. Se lo Stato potesse trasformare i ragazzi in utili
idioti senza bisogno della scuola lo farebbe".
La qualità dei docenti è
peggiorata?
"La competenza è la stessa, ma in quanto a dedizione c'è un
abisso: è crollato il valore che attribuiamo al nostro ruolo e siamo
pure mal pagati. Tanto che sconsigliamo agli allievi di
intraprendere la nostra carriera".
Addirittura?
"Certo, per un decennio non ci sarà più posto. Io devo
lasciare a 63 anni per evitare che colleghi cinquantenni di ruolo
restino a spasso perché "perdenti posto"".
Perché nelle classi non ci sono
ancora i computer?
"In Brasile i computer a scuola ci sono, anche nella
foresta...".
Ha mai pensato di cambiare scuola?
"No. Il Mazzini mi sembra meglio, sia per apertura umana e
sociale, sia per serietà e vitalità culturale. E poi molte scuole
pur di avere più iscritti adottano metodi da spot commerciale".
Che cosa le mancherà?
"Il rapporto con i giovani, umano e culturale".
Che cosa non rimpiangerà?
"La burocrazia. Dedichiamo troppo tempo a compilare
scartoffie e potremmo destinarlo all'insegnamento".
Soddisfatta del lavoro?
"Non direi. La nostra generazione deve aver preso qualche
abbaglio".