CHI HA PAURA DELLE PROVE INVALSI? * di Pietro Cipollone La Voce.info, 14.6.2011 Quest'anno, più che in passato, le prove Invalsi sono state accompagnate da proteste e polemiche. Sembra perciò utile ripercorrere tutta la vicenda. Dalle ragioni che nel 2008 hanno spinto il ministero dell'Istruzione ad avviare un sistema di rilevazione degli apprendimenti degli studenti, alla soluzione proposta dall'Invalsi, fino a discutere la questione delle prove e degli esami di terza media. Tutto il processo ha lo scopo di fornire informazioni comparabili per aiutare le scuole a compiere scelte didattiche consapevoli. Nei giorni scorsi si sono svolte le prove Invalsi. Quest’anno, più che in passato, sono state accompagnate da proteste e polemiche per i presunti danni che arrecherebbero alla scuola italiana.
IL PROBLEMA Forse è utile fornire qualche informazione che rimetta nella giusta prospettiva le ragioni che ormai tre anni fa spinsero il ministro dell’Istruzione a chiedere all’Invalsi, Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, un piano per dotare il nostro paese di un sistema di rilevazione degli apprendimenti degli studenti. La richiesta venne dall’allora ministro Giuseppe Fioroni e fu poi confermata dall’attuale ministro Mariastella Gelmini. L’Invalsi predispose un piano che prevedeva l’entrata a regime del sistema in tre anni a partire dalla scuola primaria (a.s. 2008-09) per proseguire con quella secondaria di primo grado (a.s. 2009-10) e infine con la scuola secondaria di secondo grado (2010-11). Nel farlo, l’Invalsi ha dovuto dare risposta ad alcune delle questioni che sono state discusse sui giornali in questi giorni; le soluzioni trovate sono documentate nei rapporti via via prodotti negli ultimi tre anni e disponibili sul sito dell’Istituto. Senza dubbio, la più importante tra le questioni affrontate riguarda il perché della misurazione degli apprendimenti (incidentalmente va notato che l’Invalsi con riferimento agli apprendimenti ha sempre parlato di misurare o rilevare mai di valutare). Molta parte della discussione di questi giorni ruota consapevolmente o meno intorno a questa domanda. E da qui perciò occorre partire.
A COSA SERVE LA RILEVAZIONE Vale la pena osservare che la rilevazione degli apprendimenti è pratica comune nei paesi avanzati: 18 tra i 25 paesi Ocse per i quali sono disponibili i dati hanno un sistema di rilevazione degli apprendimenti con prove standardizzate. (1) Evidentemente, esiste un bisogno molto concreto di verificare se i ragazzi che frequentano un sistema scolastico, specialmente a frequenza obbligatoria, hanno risultati di apprendimento ragionevolmente comparabili tra scuola e scuola. È superfluo spiegare le ragioni di equità e di efficienza sottese a questo bisogno. Ci sono molte opinioni contrastanti circa l’uso più opportuno dei risultati delle prove di apprendimento. Si può discutere se debbano essere messi a disposizione delle famiglie o dell’amministrazione centrale; se sia saggio o meno usarli quale strumento per differenziare le risorse tra scuole. Meno fruttuosa è forse la discussione se usarli per differenziare remunerazione e carriera degli insegnanti: molte ragioni teoriche e tecniche sconsigliano di farlo, e comunque praticamente non c’è sistema scolastico che lo faccia. Le diverse opinioni che si possono avere riguardo a queste questioni riflettono in genere il sistema di accountability preferito. La fattibilità pratica dalle soluzioni proposte dipende dalle concrete condizioni in cui ci si trova a operare. Tre anni fa era chiaro che sarebbe stato impossibile arrivare a un ampio consenso su queste questioni. Pertanto la scelta fu quella di svincolare la rilevazione degli apprendimenti da qualsiasi modello di accountability, riconoscendo invece che misurare gli apprendimenti era necessario soprattutto per fornire alla singola scuola alcune informazioni essenziali per una condotta razionale dell’attività didattica. Infatti, in assenza di dati comparabili tra scuola e scuola o all’interno dello stesso istituto, la singola scuola non ha alcuno strumento per capire se e in che misura l’istruzione che sta realmente fornendo ai propri allievi corrisponde a quella che era nelle intenzioni fornire. L'esigenza conoscitiva circa gli esiti formativi delle singole scuole non nasce con le prove Invalsi, ma è connaturata al servizio scolastico che, per sua natura, è diffuso sul territorio, fornito da operatori molto diversi operanti in strutture organizzative tutt’altro che omogenee. Per molti anni il sistema scolastico italiano ha cercato di contenere l’eterogeneità degli esiti tra scuole e di assicurare uniformità di servizio attraverso la standardizzazione e l’allocazione centralizzata degli input, l’indicazione prescrittiva dei curriculum e dell’organizzazione della didattica, con un rigoroso controllo degli apprendimenti affidato agli ispettori dell’amministrazione centrale. Per anni siamo vissuti nell’illusione che questo impianto garantisse uniformità degli esiti anche di fronte ai profondi cambiamenti della scuola e della società che hanno di fatto annullato la capacità dell’amministrazione centrale di garantire un servizio uniforme sul territorio nazionale. Basti citare l’autonomia scolastica e la scomparsa di fatto del corpo ispettivo. Così, gli indicatori tradizionalmente usati per monitorare gli esiti del servizio fornito dalle singole scuole non sono in grado di evidenziare le conseguenze della perdita di direzione da parte dell’amministrazione centrale. Oggi questi indicatori restituiscono una immagine della scuola italiana come capace di fornire un servizio abbastanza uniforme sul territorio. I tassi di successo e i voti degli esami di terza media e di maturità non segnalano, infatti, grandi differenze geografiche. È questa la realtà della nostra scuola? I livelli di apprendimento sono davvero così uniformi sul territorio? Ovviamente no. Una evidenza statistica incontrovertibile mostra come la nostra scuola fornisca un servizio educativo molto diverso tra scuola e scuola della stessa città, dello stesso quartiere e addirittura tra classe e classe della stessa scuola. Chi dubita di queste affermazioni e non crede all’evidenza statistica può chiedersi perché ogni anno le famiglie con i figli in età scolare dedichino così tanto tempo nella ricerca della “buona scuola” o della “sezione giusta”. Evidentemente c’è la cognizione che ci sia differenza tra scuola e scuola e tra classe e classe. Come può una scuola orientare le proprie scelte se gli indicatori che usa per monitorare gli esiti delle proprie azioni forniscono indicazioni del tutto fuorvianti? Le scelte compiute dall’Invalsi sono basate sul tentativo di dare risposta a questa domanda.
* Piero Cipollone è ex presidente Invalsi (1) Vedi Education at a Glance 2008.
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