“Sono un deficiente”, prof condannata
Palermo, alunno costretto a scriverlo 100 volte:
Riccardo Arena La Stampa, 17.2.2011 È una donna piccola, minuta e molto determinata: Giuseppa Valido, 59 anni, insegnante oggi in pensione, a gennaio 2006 fece scrivere a un alunno che riteneva un bullo, per cento volte, «sono deficiente» sul quaderno. Una lezione di vita, la riteneva la prof. Ieri, però, i giudici di Palermo le hanno inflitto una controlezione mica da ridere: un anno di carcere per abuso dei mezzi di correzione. L'imputata non andrà in cella, perché ci sono la sospensione della pena e il condono, ma per la difesa è una mazzata. Il Gup Piergiorgio Morosini, che aveva deciso col rito abbreviato il 27 giugno 2007, aveva infatti assolto l'imputata, ma il pm Ambrogio Cartosio aveva fatto ricorso, assieme alla parte civile, rappresentata dall'avvocato Mario Volante. Nel giudizio di secondo grado, durato tre anni, il procuratore generale Antonio Osnato aveva chiesto 14 giorni di carcere: una pena poco più che simbolica. Ieri, la terza sezione della Corte d'appello, presieduta da Gaetano La Barbera, è andata ben oltre le richieste dell'accusa. «Giustizia non è fatta», afferma l'avvocato Sergio Visconti, che preannuncia il ricorso in Cassazione. Di tutt'altro avviso il padre del ragazzino (oggi sedicenne) costretto a darsi per cento volte del deficiente, anzi del «deficiente», perché ci aveva messo una «i» in meno. «Aveva solo undici anni, quando avvennero i fatti», dice Vincenzo C. La storia aveva avuto un antefatto con la bravata che, alla fine di gennaio 2006, il ragazzino e altri due coetanei, avevano fatto ai danni di un compagnetto di classe, la prima media della scuola media Boccone, nella zona del Policlinico di Palermo: gli avevano cioè impedito di entrare nel gabinetto dei maschi, «perché sei una femminuccia, un gay». La questione era venuta fuori in classe, di fronte alle lacrime della vittima. La professoressa di Lettere, Giuseppa Valido, aveva deciso di affrontare la situazione in maniera energica: uno di coloro che avevano offeso il ragazzino aveva chiesto scusa, mentre il presunto bullo non ne aveva voluto sapere. Era così scattata la dura punizione: l'alunno discolo era stato costretto a darsi del deficiente per cento volte sul quaderno e poi aveva dovuto portare il quaderno al papà perché lo firmasse e dimostrasse di averne preso consapevolezza. Vincenzo C., imprenditore nel settore delle demolizioni di auto, aveva risposto per le rime, dando della «c…» alla professoressa. Aveva fatto visitare il ragazzino, che aveva risentito dello choc, e gli psicologi dell'azienda sanitaria avevano segnalato il fatto alla direzione della scuola e alla Procura. Il giudice Piergiorgio Morosini aveva assolto l'imputata. Nella motivazione della sentenza aveva sostenuto che la professoressa non fuggì dalle proprie responsabilità. Da stigmatizzare sarebbe stato piuttosto il comportamento del ragazzino: «Il non intervenire - aveva scritto il giudice - avrebbe finito per accreditare, tra i compagni di classe, l'idea che condotte vessatorie a danno dei più deboli sarebbero state comunque accettate». Educare reprimendo? La Procura aveva ribattuto che quel comportamento era un abuso, consistito nell'incutere terrore, più che timore: perché in fondo, di fronte a sé l'insegnante aveva non un maggiorenne ma un ragazzino, un preadolescente, che difficilmente è capace di rendersi conto dei propri errori. E poi, dopo che il caso era scoppiato, la Valido avrebbe anche cercato di farsi supportare dalle testimonianze degli altri alunni, che avevano detto che il presunto bullo non era stato traumatizzato. Ma quell'atteggiamento, che per il Gup era occasione di riflessione collettiva e «conforto alla tesi di un uso non sproporzionato del potere di intervento pedagogico-disciplinare sul minore», non è stato ritenuto affatto edificante dalla Corte d'appello. |