scuola

Festa o non festa,
il "dibattito" sul 17 marzo
è una Babele di perdenti

Paolo Franco Comensoli il Sussidiario, 14.2.2011

Fare la festa a qualcosa o a qualcuno non è poi tanto facile. Bisogna innanzitutto scegliere a quale dei due significati dell’espressione idiomatica ci vogliamo riferire. Infatti si può essere felici, gioire insieme e quindi “festeggiare” una persona o una ricorrenza. Ciò comporta, per antica tradizione, l’astensione dalle normali attività lavorative. Il contadino non va in campagna, l’operaio non entra in fabbrica e il negoziante tiene abbassata la claire. Ci si ritrova altrove, tutti insieme: in chiesa, allo stadio, al centro commerciale, al parco...

Il mio vecchio e squinternato “Zingarelli”, testimone di tanti sudori, sotto la voce “festa” recita infatti “pubblica dimostrazione di gioia, solennità per lieta ricorrenza”. E più avanti azzarda persino: “giorno di astensione dal lavoro... vacanza... esser liberato dal lavoro, dalla scuola”. Ma fare la festa a qualcosa o a qualcuno vuol dire anche: “giustiziare”, raccogliersi intorno al patibolo, per l’appunto, “in festa” per assistere alla fine miseranda di un condannato! Vuol dire: fare in modo che l’essere odiato scompaia, che da quel momento non esista più, che non se ne parli più o almeno per un bel po’.

Facevo tra me e me queste riflessioni davanti alla Tv, guardando, per la verità un po’ sbigottito, lo spot che la Rai, che pure è stata linguisticamente la “mamma degli italiani”, ha dedicato al 150° dell’Unità d’Italia. Vi si vede una sorta di Torre di Babele, nella quale più nessuno capisce il linguaggio dell’altro. In Mesopotamia fu per punizione divina. Dio disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Parole da meditare. Non si sa bene perché, ma gli italiani non si capiscono più. Così passa, a me pare, il messaggio Rai. Immaginate, per capirci, una coppia di sposi che festeggia il proprio ennesimo anniversario di matrimonio e alzando il calice di champagne non dice “ci siamo tanto amati”, ma “quante beghe, quante botte ci siamo dati”.

È un altro segno, io credo, della confusione generale e diffusa sul tema dell’Unità. Ricordo il centenario, quello del ‘61. Fu un evento straordinario. Torino tornò ad essere ancora per un po’ capitale d’Italia. Comuni, Province, scuole, tutti parteciparono con grande entusiasmo. La mia Provincia, nel senso di amministrazione, pubblicò un grosso libro, promosse un sacco di iniziative. Oggi è completamente assente sulla scena del 150°. È una sorta di tabù. Non se ne può parlare, nemmeno sottovoce.

Poteva la scuola rimanere fuori da questa bagarre? Evidentemente no. Tutto ciò che accade nella società finisce inesorabilmente sui banchi di scuola. Ed ecco quindi il tormentone della vacanza negata. Il 17 marzo che si fa? Il ministro suggerisce che tutti siano al lavoro, i presidi protestano, i docenti si dividono in opposte fazioni, la stampa getta benzina sul fuoco. Una sorta di melodramma nazionale nel quale però non entra mai in scena il personaggio principale: il 150° dell’Unità nazionale. E al coro che insiste sul ritornello: il 17 marzo che si fa? Rispondo: non era il caso di pensarci prima?

Lo dico per le scuole, innanzitutto. Quante hanno messo in cantiere, nel POF dell’anno scolastico corrente, una serie di attività di ricerca e di approfondimento del tema? Quanti docenti ne hanno fatto un punto di forza del loro piano di studi annuale? Quanti Consigli di Istituto hanno assunto iniziative, quali, ad esempio, di orientare tutti i viaggi di istruzione di quest’anno verso mete legate ai fatti salienti della nostra storia patria? Potrei allungarmi in domande retoriche, ma resta il fatto che sotto questo punto di vista non si può dar torto al ministro quando sostiene che si può “dedicare questa giornata alla riflessione sui valori dell`Unità d’Italia”. Certo che si può. Aggiungo che si poteva dedicare almeno una parte dell’anno scolastico a tale riflessione.

Ma forse, anzi senza forse, doveva pensarci prima anche il governo, anche il ministro. Se ne sono accorti che manca solo un mese? Quando mai decisioni come quella di istituire una festività-vacanza nazionale si prendono alla vigilia dell’evento? Si poteva mettere per tempo nel calendario scolastico annuale. Si poteva fare di più, molto di più, non c’è dubbio alcuno. Il tema è stato trattato con molte, troppe riserve mentali, politiche e pseudostoriche. E allora, il 17 marzo che si fa?

Credo che a questo punto saggezza e prudenza impongano di non esacerbare oltre gli animi di un mondo scolastico che quest’anno ha già sofferto molte, troppe traversie, non ancora metabolizzate. Non generiamo ulteriori divisioni. Ricordi il ministro che c’è l’autonomia organizzativa delle scuole. Le lasci decidere in pace, con i propri organi collegiali che sono ancora luoghi di partecipazione democratica. Sarà festa a macchie di leopardo lungo lo Stivale? Pazienza. Vorrà dire che forse ha ragione lo spot della Rai?, “se gli italiani fossero quelli di 150 anni fa, probabilmente comunicherebbero ancora così”: “Sun chì e devi dumandà: ‘vöeret ti ciapà sù chi lù?’ e ‘vöeret ti ciapà sù chi lé?’”. La risposta è no. Quella degli sposi esterrefatti intendo.