Pensioni, un buon inizio, ma c'è altro da fare di Sandro Gronchi da La Voce.info del 6.12.2011 Per quanto ancora avvolti nelle nebbie dell'informazione incompleta, i provvedimenti strutturali in materia previdenziale presentati dal governo appaiono come una buona partenza per un generale riordino di cui si sentiva davvero il bisogno. Il blocco temporaneo dell'indicizzazione dovrebbe essere riassorbito in un ulteriore provvedimento strutturale riguardante l'istituzione di un meccanismo di indicizzazione autenticamente contributivo. I documenti (ufficiali e ufficiosi) in circolazione sulle misure introdotte dal governo in materia previdenziale presentano lacune e contraddizioni, oltre a non apparire del tutto allineati con le dichiarazioni del ministro Fornero nella conferenza stampa di domenica 4 dicembre. Forse i provvedimenti devono ancora essere limati, sebbene le linee guida sembrino delineate al punto da consentire qualche riflessione.
Giova distinguere i
provvedimenti “strutturali”, costituenti la riforma vera e propria,
da quelli “contingenti” che il governo ha deputato a fare cassa.
Riguardo ai primi, il pezzo forte concerne i requisiti d’accesso ai
trattamenti pensionistici. Al riguardo, occorre ulteriormente
distinguere il metodo utilizzato dalla sua implementazione, cioè dal
‘mero’ settaggio dei parametri.
Il metodo di lavoro
usato dal governo è pienamente
condivisibile. Dopo le controriforme del 2004 e del 2007,
è finalmente recuperata la flessibilità
mediante il ripristino di una fascia d’età pensionabile che dal 2018
sarà unica per tutti i lavoratori, indipendentemente dal genere e
(si spera) dalla categoria di appartenenza. In tal modo, si pone
fine a un indecoroso congegno di “quote e finestre” che, oltre a
confliggere con la scelta contributiva del 1995, faceva dell’Italia
un caso unico (di bizantinismo e opacità) nel panorama europeo. La
fascia d’età pensionabile riguarderà non solo i lavoratori
totalmente “contributivi”, entrati in assicurazione dopo il 1995, ma
anche quelli entrati in precedenza. La fascia pensionabile prescelta, da 66 a 70 anni, è oggettivamente molto severa a confronto con quella, da 61 a 67 anni, assunta dal sistema contributivo svedese. Eppure quest’ultimo è unanimemente giudicato, negli ambienti internazionali, come un caso di previdenza eccellente. La severità potrà dare risultati, anche importanti, nel breve-medio periodo, ma sarà inutile a regime perché, in ambiente contributivo, il minor numero di pensionati generato dalla posticipazione del pensionamento è compensato dal maggiore importo unitario delle prestazioni.
Sulla scelta avrà
pesato l’impegno preso con l’Europa dal precedente governo, che
purtroppo, anche in tale circostanza, ha dimostrato di non conoscere
né apprezzare il modello contributivo e le sue proprietà. Ma al
governo dei professori non sarebbero mancati i mezzi per argomentare
che il rilancio del modello avrebbe consentito risultati importanti
anche evitando scelte da “primi della classe”. Oltretutto, a età
così elevate dovrà corrispondere una maggiore spesa per oneri “da
lavoro usurante”. È anche mancata la volontà di eliminare del tutto la pensione d’anzianità che tuttavia, sotto la denominazione di “pensione anticipata”, sarà accessibile con una maggiore anzianità contributiva e sarà assoggettata a una sorta di correzione attuariale se richiesta prima dei 63 anni d’età.
In forma nuova, il
pensionamento anticipato sopravviverà perfino
a regime, quando sarà accessibile a 63 anni da chi può
vantare non più una contribuzione elevata (basterà il requisito
minimo di 20 anni) bensì un elevato importo della prestazione
spettante. È come dire: chi ha versato di più può andarsene prima.
Si perde in tal modo ogni legame “storico” con l’usura derivante da
un’attività lavorativa prolungata. Riguardo al temporaneo blocco dell’indicizzazione sulle quote di pensione eccedenti il doppio del trattamento minimo, non c’è dubbio che lo strumento sia efficace al punto da toccare la squisita sensibilità del ministro del Welfare Elsa Fornero. Per sua consolazione, giova ricordare che, in passato, le pensioni sono già state “bloccate” anche in presenza di tassi d’inflazione più elevati degli attuali.
Mi piacerebbe che
l’odierna necessità fosse l’occasione per affrontare finalmente un
argomento da me tante volte sviluppato in scritti che ad Elsa
Fornero non saranno tutti sfuggiti. Ecco di che si tratta. Tutti ormai sanno che il sistema contributivo è paragonabile a una banca virtuale che intesta a ciascun iscritto un conto corrente fruttifero sul quale sono prima depositati i contributi e dal quale sono poi prelevate le annualità di pensione. Sulle “giacenze” matura un interesse sostenibile, pari alla crescita nominale del Pil. Gli interessi maturati prima del pensionamento concorrono alla formazione del montante contributivo e perciò consentono di liquidare una pensione superiore a quella generata dalla mera restituzione dei contributi versati. Gli interessi che maturano dopo (sulle giacenze ogni anno costituite dalla parte non ancora rimborsata del montante) sono ‘oscurati’ dal modello contributivo nostrano. In realtà, gli interessi in parola possono avere due destinazioni: - possono essere interamente devoluti ad aumentare la pensione nel tempo, cioè a “finanziare” l’indicizzazione; - possono essere devoluti a tale scopo solo in parte, mentre la parte residua è pagata in anticipo per consentire la liquidazione di una pensione più generosa. L’anticipazione è realizzata con una speciale tecnica finanziaria che la incorpora nel coefficiente di trasformazione. Pertanto, prende la forma di una maggiorazione di quest’ultimo. Nel primo caso, la pensione è indicizzata al Pil “pienamente” (cresce al medesimo tasso). Nel secondo lo è “parzialmente”, cioè è perequata in base alla parte non anticipata della crescita nominale del Pil.
È allora possibile dire
che il sistema contributivo mette a disposizione un interessante
trade off tra liquidazione e indicizzazione: quanto più generosa
si vuole la prima, tanto più avara deve essere la seconda. La
sostenibilità del sistema è
comunque assicurata perché la scelta riguarda la destinazione
dell’interesse e non la sua dimensione che resta uguale alla
crescita del Pil. Per evitare il rischio di indicizzazioni inferiori all’inflazione, l’anticipazione non dovrebbe superare una previsione prudente della crescita in termini reali. Ma la scelta di andare oltre può attrarre paesi con orizzonti temporali limitati, che puntano a incassare nel breve termine il consenso garantito dalla liquidazione di pensioni generose e trascurano i rischi di insostenibilità sociale che una simile scelta produce nel lungo periodo. Dopo un lungo dibattito, la Svezia fece la scelta, consapevole benché imprudente, di anticipare l’1,6 per cento. Finora, l’impegno a indicizzare le pensioni al netto dell’anticipazione è stato onorato anche quando ciò ha comportato la riduzione del loro potere d’acquisto. Paese mediterraneo, l’Italia fece scelte pragmatiche, non contemplate dalla “ortodossia contributiva”. Da un lato, accettò la maggiorazione dei coefficienti di trasformazione derivante da un’anticipazione dell’1,5 per cento. Dall’alto, rifiutò un’indicizzazione coerente delle pensioni contributive estendendo a esse l’indicizzazione ai prezzi già in vigore per quelle retributive.
Tale anomalia ha una
spiegazione politica che non basta a giustificarla: il governo Amato
aveva da poco sganciato le pensioni dai salari e il governo Dini non
volle rimettere in discussione un risultato faticosamente raggiunto
e foriero di risparmi di spesa rilevanti. L’odierno contesto è molto diverso e la stessa Europa ci chiede ora di dimensionare l’indicizzazione alla crescita del Pil. Perciò il momento è propizio per ridisegnare organicamente il meccanismo di indicizzazione delle pensioni contributive. Sull’esempio svedese, il nuovo meccanismo dovrebbe essere esteso alle pensioni retributive per evitare indicizzazioni dicotomiche nella fase transitoria. Considerate le previsioni di crescita, nell’immediato il risparmio di spesa potrebbe essere analogo a quello derivante dalla mera sospensione dell’indicizzazione ai prezzi. Grande sarebbe però il vantaggio di rimediare definitivamente a una grave anomalia che dura da diciassette anni. Purtroppo, il documento divulgato dal governo non mostra intenzioni del genere. Anzi, vi si accenna a una fuorviante indicizzazione al Pil procapite. Se la crescita della produttività dovesse diventare il nuovo rendimento sostenibile offerto al sistema, allora dovremmo in primo luogo usarla per capitalizzare i montanti degli attivi. In secondo luogo, dovremmo usarla per indicizzare le pensioni non prima di averla diminuita dell’1,5 per cento se tale dovesse restare la quota anticipata nei coefficienti di trasformazione.
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